domenica 4 agosto 2013

Umberto Cecchi e la Prato che non c'è più

Umberto Cecchi scrive un articolo sull'agosto d'antan a Prato, lasciandosi andare ai ricordi di una città che non c'è più. Un articolo nostalgico, dove sembra  che una volta, certamente prima degli anni '90, tutto era bello.
Se io detesto l'agosto, è proprio perché mi ricordo della tristezza della Prato agostana di una volta, quando ero bambina. Certo Umberto Cecchi ha più anni di me, e quindi la sua una volta non è quella mia. Ma mi ricordo bene, bambina bambina, e mia madre lo rammenta ancora, che io d'agosto a Prato non ci volevo stare e scappavo da mia nonna in campagna. Era una città deprimente, come tutte le città industriali; sporca, battuta dal vento caldo, piena di polvere e maleodorante. Altamente inquinata.
Sì, non si sentivano i telai battere - che incubo era quello durante tutto l'anno! - ma le strade ancora non asfaltate, le gore puzzolenti e impossibili in città dove le mettiamo? 
Stavamo in via Bicchierai, e via Valentini lì vicina- non so se si chiamasse così - d'agosto faceva paura. Altro che agosto di una volta!
Come dice mia madre che da pistoiese Prato non l'ha mai amata, ora Prato è più bella, è più gradevole, nonostante tutto.
Riguardo poi alla disumanizzazione, intanto si potrebbe consigliare a Umberto Cecchi di rispondere alle lettere scritte a mano (non via facebook) che gli vengono inviate.

(Da Il Tirreno in linea) "Era l'agosto. E come se fosse passata una fata buona, o una strega cattiva, la città diventava deserta. Si acquietava. Pian piano il suono inconfondibile dei telai che scandivano il tempo del lavoro, taceva, il grido delle filande si spegneva nel nulla fatto di silenzio e le strade diventavano ancora una volta il teatro vivo dei pochi rimasti. Restavano un paio di cinema all'aperto: quello della Guido Monaco, gomito a gomito con le suore di clausura, San Bartolomeo all’ombra della chiesa, e pochi altri appuntamenti per la notte.
Al “Banchini” si apriva sul tetto la grande presa d'aria figlia dell'arte di Nervi attraverso la quale si vedevano le stelle cadenti di San Lorenzo, mentre Nazzari scandiva a Ivonne Sanson, «no: i figli non si vendono». Agosto svuotava le piazze. Chiudeva le fabbriche che non chiudevano mai; entrava negli stanzoni pieni di stracci che ribollivano odori antichi come il mondo: potevamo essere in Africa come in Asia. O in America per colpa del cinema: Tyrone Power, Erron Flinn, poi James Dean. E Ombre Rosse.
Eravamo più poveri e probabilmente più felici. Non avevamo di fronte il diritto alle vacanze, ma la voglia di vacanze, e la seguivamo a seconda delle nostre tasche: nessuno prendeva il mutuo per le Seichelles o Hurgada, ma molti prendevano la Cap e la Lazzi per Viareggio. Le famiglie con la Seicento, e quelle con l'Alfa Romeo Giulietta - quella vera - si alzavano all'alba delle cinque e si preparavano a sfidare la Firenze-Mare asfaltata a tavolati di cemento: senza fretta, senza ansie, senza rabbie per i rallentamenti, senza sogni che non si potessero concretizzare.
A notte di fronte al bar Haiti, in piazza san Francesco, i nottambuli, annegati nel deserto della città soli davanti ai bandoni abbassati, lì discutevano animatamente del tempo e del governo. Il circo Barnum, o chi per lui cominciava ad alzare il telone in piazza dei Macelli per la fiera di settembre, e il guardiano degli animali, portava l'elefante a passeggiare per le vie della città. Gli zingari arrivano in massa a metà del mese. Per festeggiare la Madonna. In via del Pesce e nel Corso, cuore dello spaccio alimentare cittadino, i negozi erano sbarrati, esattamente come oggi.
Ma a quel tempo non per colpa della crisi, ma per quel benessere un po' per tutti che benediva la città deserta. Riaprivano a settembre e intanto gli appassionati della tradizioni aspettavano ferragosto per il taglio del cocomero in piazza: molti tornavano dal mare per la distribuzione fatta dal sindaco Giovannini prima e da Giorgio Vestri poi. E c'era un solo cinese, ormai pratese anche lui.
Tutto era a misura d'uomo; il tempo, che scorreva normale, senza affanni; lo spazio, che era quello che vivevamo, gomito a gomito, con una educazione e una socialità che oggi sono sparite. Parlavamo fra noi a mezzavoce, zenza “bociare” nella tranquilla città deserta, non usavamo Facebook per scambiarci pareri: ce li dicevamo faccia a faccia sotto il solleone. Scambi di idee, un libro da consigliare. Un crepaccio di quiete.
Ma le domeniche dell'agosto pratese era. no davvero uniche. Un risveglio. Gli imprenditori, e non pochi operai, tornavano dal mare, la mattina presto e andavano “a bottega”. Cioè in fabbrica. A controllare, perché non si sa mai, e perché starne lontano era una sofferenza: un mondo perduto, non per la vittoria delle tecnologia, ma l'insipienza di noi uomini “conteporanei”. La visita in fabbrica terminava con una messa in Duomo o una visita alla “zona”, in Frascati, al Partito Comunista.
I treni erano pieni, ma nessuno litigava semmai si giocava a carte, il sole ci stava addosso per simpatia, attratto dai vecchi tetti. Assieme ai piccioni rimanevamo noi giornalisti, un po' di vigili, qualche appassionato della città deserta, che riscopriva nel silenzio di giornate infinite e di albe quiete. Sì, è vero: a stare attenti si sentiva ancora qualche battito di telaio, qualcuno doveva pur restare a preparare le tele per la ripresa.
Oggi l'agosto in città è identico al settembre. Disagi, fretta, disumanizzazione, voglie tradite, delusione per un altro anno andato. E i cinesi che aspettano il taglio del cocomero. Aveva ragione Silvio Pugi: «Un son più gli agosti d'una volta». E si riferiva agli uomini non alle stagioni.
* ex direttore della Nazione e presidente del Teatro Metastasio

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