Un articolo sugli Etruschi del Prof. Centauro. Anche per non dimenticare la nostra dimenticata "città etrusca", Gonfienti.
L’uso ufficiale
di quello scadenzario mensile (con
settimane di sette giorni più uno) fu ufficialmente
sancito a Roma dal re Servio Tullio. Alla fine del ciclo di dodici mesi (corrispondente
alla volta celeste nelle congiunzioni astrali dello zodiaco) il tempo finiva
con l’annuale affissione del chiodo nel tempio di Giove Capitolino, successivamente
trasferito dallo stesso Servio al tempio della dea Nortia a Volsinii,
attestato dal rituale tagetico del «Clavi Annales». Queste antiche regole erano
racchiuse nei tre libri sacri degli Etruschi (Fatales, Acheruntici,
Ostentaria) andati purtroppo perduti. Una testimonianza autorevole su come
interpretare quegli antichi precetti ci viene però da Cicerone che esplorò i
cosiddetti “libri rituali” (Haruspicini, Fulgurales e Rituales) facendone un’attenta
disamina logico-filosofica (De Divinatione, I, 72). Correva l’anno 44 aC
e del mondo etrusco niente più o quasi ormai rimaneva nella Roma pre-augustea. Dunque, perché mai al grande retore romano
interessò approfondire gli aspetti misterici che avevano regolato la vita
sociale e politica dei Rasna, seguiti dalla stessa Curia romana? Rituali che egli non mancò di additare con la consueta
veemenza dialettica, giacché intrisi di superstizioni, “pleonastici”,
fintamente divinatori e augurali. Altresì lo stesso Cicerone riconobbe in quei
libri alcuni principi assai convenienti allo Stato per il governo del
territorio e la tenuta sociale delle comunità, e per questo giustificati e ritenuti
validi nell’impegno profuso per difendere le
istituzioni degli antenati, mantenendo in vigore consuetudini arcaiche e
cerimonie di un remoto passato per
quanto potessero apparire come sortilegi e mistificazioni, specie nelle
celebrazioni perpetuate dagli aruspici «dotati
di una sorta di divinazione, cioè capaci di presentire il futuro e di
acquisirne la conoscenza». I Rasna avevano in tal modo predeterminato quale sarebbe stato il
“compimento del loro tempo”, dichiarando in una dimensione dottrinale
escatologica la durata in decine di anni la vita di ognuno (7+1) e in secoli
(7+1) quella del popolo intero; i segreti di questa premonizione occulta li
potremo avvicinare solo comprendendo il tema del viaggio verso le nuove terre
dove la vita si rigenera e riparte con essa un altro ciclo vitale. Tutto finisce per poter ricominciare! Un
messaggio di forza e di coraggio per sostenere ogni nuova generazione. In
questo senso ci spieghiamo come la partenza dalle terre di origine segni davvero
un nuovo inizio e ci offra la decodifica delle “enigmatiche metafore” rappresentate
nella vita quotidiana di quel popolo; basti pensare alla predisposizione dei
manufatti apotropaici disposti sulle dimore nel rispetto del tempo assegnato che
sta passando e quindi per scongiurare distruttive interferenze di divinità
ostili, rivolgendosi piuttosto ai numi tutelari della casa che saranno i Lari
per i romani, accettando implicitamente lo stoicismo dell’attesa, che divenne
filosofia nella scuola del cipriota Zenone tanto cara a Roma. I Libri
Acherontici, o Tagetici, introducono alla dimensione ctonia dall’oltretomba
pagano, raccontano della permanenza post mortem dello spirito, come aurea dell’individuo
che oltrepassa la barriera della mortalità. Se le divinità etrusche non sono affatto
misericordiose in terra lo potranno (forse) essere in un’altra dimensione. Non essendo
giunte a noi le scritture dei Rasna, solo attraverso le arti applicate, dalla
pittura alla bronzistica, possono spiegarsi in questa chiave i simbolismi
partoriti dal loro ingegno e dal loro sapere, allo stesso modo in cui si
leggono i testi omerici dell’Iliade e dell’Odissea. Ma questa disamina richiederebbe una
trattazione assai più complessa ed articolata che ci porterebbe al confronto tra
religioni e credenze. Ad ogni modo testimonianze evocative del loro viaggio e
del loro insediarsi nei territori sono attestate a più riprese – come ha
ricordato Briquel - dagli storici greci più antichi, quali il poeta eloide
Esiodo che rammenta (Teogonia, vv. 1011-16) il popolo migrante dei Tursenoi
(Tirreni), che segue non solo poeticamente le rotte dei delfini (tursiopi)
guide sicure verso mari pescosi e raggiungibili mete; dopo di lui, come più volte
citato, quell’Erodoto di Alicarnasso, indicato dallo stesso Cicerone come
“padre della storia”, oppure il non meno carismatico Tucidide che li menzionò sì
come abili marinai ma anche come astuti “pirati” (da intendere nei confronti di
chi non meno di loro li insidiava); così disse anche Ellanico di Lesbo al
riguardo dei Pelasgi-Tirreni provenienti dalla Tessaglia e Eforo di Cuma
asiatica che ricorda come le navi dei Tirreni fossero giunte oltre lo stretto
di Messina prima dei Greci (non come atto di pirateria). Altri tratti
caratterizzanti li troviamo, sia pure in modo assai frammentario, anche negli autori
greci più tardi come Polibio, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Diodoro Siculo,
che ci consentono di rimontare porzioni del caleidoscopico mosaico del divenire
etrusco. Non stupisca quindi che lo
scenario di un così vasto palinsesto stratigrafico, seguendo il canovaccio
degli spostamenti, lo si possa trovare per l’appunto a cavallo dei nostri appennini,
in particolare nelle valli superiori dell’Arno e del Tevere, specialmente nei
luoghi “sacralizzati”, come Gonfienti e i Monti della Calvana, che, fin dalle
più remote colonizzazioni, sono stati partecipi di questi processi nella
capillare disseminazione di tracce.
Nel 89 aC. ebbe fine con la “Lex Iulia”
l'indipendenza amministrativa dei centri etruschi resi accondiscendenti, poi
toccò alle ultime sacche di resistenza cedere uno ad uno i propri dominii, anche
se la sopravvivenza dei Rasna si vuole continuasse ancora fino all’anno 27, primo
anno del principato di Ottaviano, col titolo imperiale di Cesare Augusto. Non
pare un caso che prima dell’incoronazione di Augusto si collochi la stessa fondazione
di Florentia, nuova colonia romana sorta nelle terre strappate ad Etruschi ed
Umbri, messe “a ferro e fuoco” da Lucio Cornelio Silla, ma solo un ventennio dopo
della sua morte. Infatti, per volontà di Gaio Giulio Cesare, dopo la lunga
parentesi delle guerre civili, si poté tracciare il pomerio della città
rinascente sulle ceneri di quella etrusca. La prima Florentia (“città
della floridezza”) era dunque formata dai
veterani di quelle guerre, quei «Florentini praefluenti Arno adpositi»
(Plinio, Nat. Hist. III, 52) che si insediarono nel luogo stesso del castrum
militare laddove prima vi era l’oppidum etrusco di Aharnam (cfr. G.A.
Centauro, CuCo 427). Nella rappresentazione della «Regio VII- Etruria» di epoca augustea si riscopre dunque
l’entità geografica delle terre d’eccellenza dei Rasna, riconoscendo
implicitamente l’identità originaria di quei territori. «La civiltà che si è
formata in Etruria dal VII al II secolo a.C., non è in fin dei conti che la
prima grande civiltà italiana» (J.
Heurgon, Vita quotidiana degli Etruschi, 1961). Non stupisca quindi l’affermazione
del grande antichista francese, scomparso nel 1995. Chissà quali altre riflessioni
avrebbe fatto Heurgon dopo la scoperta dell’antica Gonfienti, la messa in luce
della via transappenninica del Ferro (da Pisa a Spina), l’individuazione di
inconfutabili tracce di una “centuriazione etrusca” risalente al VII-VI sec. aC
nel cuore della Piana fiorentina-pratese, nonché la rilettura storico-urbanistica
di Vipsul-Faesulae (Fiesole), lui che ebbe a chiosare il suo postulato
scrivendo: «È in verità impressionante constatare che, per due volte, pressoché
la stessa regione dell’Italia centrale, l’Etruria antica e la Toscana moderna,
sia stata il focolaio determinante della civiltà italiana /…/ La nascita e il
Rinascimento dell’Italia hanno avuto la stessa culla, e in questo si riscontra
una coincidenza ammirevole, e forse più di una coincidenza». Filtrato da quelle
parole, non resta che riconoscere che un’ideale ponte antropologico-culturale,
bene aldilà del mito, congiunge dunque antichità e modernità attraverso la
civiltà degli Etruschi.
Giuseppe
Alberto Centauro
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