domenica 13 febbraio 2022

GLI ETRUSCHI E LA RUOTA DEL TEMPO

Un articolo sugli Etruschi del Prof. Centauro. Anche per non dimenticare la nostra dimenticata "città etrusca", Gonfienti.



(...) «le tradizioni tramandate dall’Antichità sulle origini del popolo etrusco (e la millenaria presenza nelle terre d’Etruria, ndA) sono soltanto l’espressione dell’immagine che i suoi alleati o avversari volevano tramandare» (D. Briquel, Le origini degli Etruschi in M. Torelli, 2000). Tuttavia, più che a questa pur ineccepibile considerazione, deve crescere la consapevolezza di dover guardare oltre rispetto a certe affermazioni e considerare piuttosto i fatti alla luce delle nuove evidenze scientifiche e l’enorme portata dell’eredità culturale trasmessa dagli Etruschi.  In un certo modo valgono le stesse argomentazioni che hanno attestato la formazione anatolica dell’ethnos dei Rasna avvalorando con ragionamento logico deduttivo la tesi erodotea rispetto ad altre storie che pure sono state tramandate (cfr. CuCo 430).  Non a caso la portata del progetto territoriale etrusco che si realizzerà compiutamente in Etruria lo si riconosce nella stessa formazione della Roma al tempo dei re etruschi che poi  ha accompagnato l’intera storia repubblicana della città. Più in generale la rivoluzione dei Rasna si avverte ovunque «nella divisione spaziale geometrica delle città, dei territori agrari e delle necropoli» (cfr. M. Preti, CuCo 422). Tutto ciò fa indubbiamente parte del patrimonio degli antichi saperi di quel popolo, progressivamente accresciuti grazie all’avanzamento tecnologico e allo sviluppo della siderurgia già a partire dalle ataviche conoscenze dei “maghi del fuoco” provenienti dall’Anatolia.  Oggi è singolare constatare che queste peculiari connotazioni sono al tempo stesso la testimonianza e la dimostrazione di quella “Etrusca Disciplina” (molto poco compresa) che da sempre li ha governati, ben oltre i secoli del loro dominio prima che Roma, dopo aver fatto “tabula rasa” delle loro città, ma non dei loro saperi, rigenerasse quegli stessi insegnamenti in una sorta di “ideale” passaggio di consegne. Un dissolvimento che i Rasna avevano “preconizzato” per se stessi con la teoria dei “saecula”. Questa profezia, già affermata da Varrone dalla lettura di certe Tuscae Historiae, scritte da un tal «Volnius, qui tragoedias Tuscas scripsit», fissava in dieci secoli (in realtà 7 +1), computati in vario modo, il tempo che il destino aveva assegnato a quel popolo. Il tempo era scandito mese per mese dal calendario etrusco-romano chiamato “ciclo nundinale” che, per la peculiare forma circolare della tavola formata da cerchi intersecanti tra di loro come ingranaggi in movimento (una sorta di orologio) e la sua profetica finalità, indicheremo come “Ruota del Tempo”.

L’uso ufficiale di quello scadenzario  mensile (con settimane di sette giorni più uno)  fu ufficialmente sancito a Roma dal re Servio Tullio. Alla fine del ciclo di dodici mesi (corrispondente alla volta celeste nelle congiunzioni astrali dello zodiaco) il tempo finiva con l’annuale affissione del chiodo nel tempio di Giove Capitolino, successivamente trasferito dallo stesso Servio al tempio della dea Nortia a Volsinii, attestato dal rituale tagetico del «Clavi Annales». Queste antiche regole erano racchiuse nei tre libri sacri degli Etruschi (Fatales, Acheruntici, Ostentaria) andati purtroppo perduti. Una testimonianza autorevole su come interpretare quegli antichi precetti ci viene però da Cicerone che esplorò i cosiddetti “libri rituali” (Haruspicini, Fulgurales e Rituales) facendone un’attenta disamina logico-filosofica (De Divinatione, I, 72). Correva l’anno 44 aC e del mondo etrusco niente più o quasi ormai rimaneva nella Roma pre-augustea.  Dunque, perché mai al grande retore romano interessò approfondire gli aspetti misterici che avevano regolato la vita sociale e politica dei Rasna, seguiti dalla stessa Curia romana? Rituali  che egli non mancò di additare con la consueta veemenza dialettica, giacché intrisi di superstizioni, “pleonastici”, fintamente divinatori e augurali. Altresì lo stesso Cicerone riconobbe in quei libri alcuni principi assai convenienti allo Stato per il governo del territorio e la tenuta sociale delle comunità, e per questo giustificati e ritenuti validi nell’impegno profuso per difendere le istituzioni degli antenati, mantenendo in vigore consuetudini arcaiche e cerimonie di un remoto passato  per quanto potessero apparire come sortilegi e mistificazioni, specie nelle celebrazioni perpetuate dagli aruspici «dotati di una sorta di divinazione, cioè capaci di presentire il futuro e di acquisirne la conoscenza». I Rasna avevano in tal modo predeterminato quale sarebbe stato il “compimento del loro tempo”, dichiarando in una dimensione dottrinale escatologica la durata in decine di anni la vita di ognuno (7+1) e in secoli (7+1) quella del popolo intero; i segreti di questa premonizione occulta li potremo avvicinare solo comprendendo il tema del viaggio verso le nuove terre dove la vita si rigenera e riparte con essa un altro ciclo vitale.  Tutto finisce per poter ricominciare! Un messaggio di forza e di coraggio per sostenere ogni nuova generazione. In questo senso ci spieghiamo come la partenza dalle terre di origine segni davvero un nuovo inizio e ci offra la decodifica delle “enigmatiche metafore” rappresentate nella vita quotidiana di quel popolo; basti pensare alla predisposizione dei manufatti apotropaici disposti sulle dimore nel rispetto del tempo assegnato che sta passando e quindi per scongiurare distruttive interferenze di divinità ostili, rivolgendosi piuttosto ai numi tutelari della casa che saranno i Lari per i romani, accettando implicitamente lo stoicismo dell’attesa, che divenne filosofia nella scuola del cipriota Zenone tanto cara a Roma. I Libri Acherontici, o Tagetici, introducono alla dimensione ctonia dall’oltretomba pagano, raccontano della permanenza post mortem dello spirito, come aurea dell’individuo che oltrepassa la barriera della mortalità. Se le divinità etrusche non sono affatto misericordiose in terra lo potranno (forse) essere in un’altra dimensione. Non essendo giunte a noi le scritture dei Rasna, solo attraverso le arti applicate, dalla pittura alla bronzistica, possono spiegarsi in questa chiave i simbolismi partoriti dal loro ingegno e dal loro sapere, allo stesso modo in cui si leggono i testi omerici dell’Iliade e dell’Odissea.  Ma questa disamina richiederebbe una trattazione assai più complessa ed articolata che ci porterebbe al confronto tra religioni e credenze. Ad ogni modo testimonianze evocative del loro viaggio e del loro insediarsi nei territori sono attestate a più riprese – come ha ricordato Briquel - dagli storici greci più antichi, quali il poeta eloide Esiodo che rammenta (Teogonia, vv. 1011-16) il popolo migrante dei Tursenoi (Tirreni), che segue non solo poeticamente le rotte dei delfini (tursiopi) guide sicure verso mari pescosi e raggiungibili mete; dopo di lui, come più volte citato, quell’Erodoto di Alicarnasso, indicato dallo stesso Cicerone come “padre della storia”, oppure il non meno carismatico Tucidide che li menzionò sì come abili marinai ma anche come astuti “pirati” (da intendere nei confronti di chi non meno di loro li insidiava); così disse anche Ellanico di Lesbo al riguardo dei Pelasgi-Tirreni provenienti dalla Tessaglia e Eforo di Cuma asiatica che ricorda come le navi dei Tirreni fossero giunte oltre lo stretto di Messina prima dei Greci (non come atto di pirateria). Altri tratti caratterizzanti li troviamo, sia pure in modo assai frammentario, anche negli autori greci più tardi come Polibio, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Diodoro Siculo, che ci consentono di rimontare porzioni del caleidoscopico mosaico del divenire etrusco.  Non stupisca quindi che lo scenario di un così vasto palinsesto stratigrafico, seguendo il canovaccio degli spostamenti, lo si possa trovare per l’appunto a cavallo dei nostri appennini, in particolare nelle valli superiori dell’Arno e del Tevere, specialmente nei luoghi “sacralizzati”, come Gonfienti e i Monti della Calvana, che, fin dalle più remote colonizzazioni, sono stati partecipi di questi processi nella capillare disseminazione di tracce.  

Nel 89 aC. ebbe fine con la “Lex Iulia” l'indipendenza amministrativa dei centri etruschi resi accondiscendenti, poi toccò alle ultime sacche di resistenza cedere uno ad uno i propri dominii, anche se la sopravvivenza dei Rasna si vuole continuasse ancora fino all’anno 27, primo anno del principato di Ottaviano, col titolo imperiale di Cesare Augusto. Non pare un caso che prima dell’incoronazione di Augusto si collochi la stessa fondazione di Florentia, nuova colonia romana  sorta nelle terre strappate ad Etruschi ed Umbri, messe “a ferro e fuoco” da Lucio Cornelio Silla, ma solo un ventennio dopo della sua morte. Infatti, per volontà di Gaio Giulio Cesare, dopo la lunga parentesi delle guerre civili, si poté tracciare il pomerio della città rinascente sulle ceneri di quella etrusca. La prima Florentia (“città della floridezza”) era dunque formata  dai veterani di quelle guerre, quei «Florentini praefluenti Arno adpositi» (Plinio, Nat. Hist. III, 52) che si insediarono nel luogo stesso del castrum militare laddove prima vi era l’oppidum etrusco di Aharnam (cfr. G.A. Centauro, CuCo 427).  Nella rappresentazione della «Regio VII- Etruria» di epoca augustea si riscopre dunque l’entità geografica delle terre d’eccellenza dei Rasna, riconoscendo implicitamente l’identità originaria di quei territori. «La civiltà che si è formata in Etruria dal VII al II secolo a.C., non è in fin dei conti che la prima grande civiltà italiana» (J. Heurgon, Vita quotidiana degli Etruschi, 1961). Non stupisca quindi l’affermazione del grande antichista francese, scomparso nel 1995. Chissà quali altre riflessioni avrebbe fatto Heurgon dopo la scoperta dell’antica Gonfienti, la messa in luce della via transappenninica del Ferro (da Pisa a Spina), l’individuazione di inconfutabili tracce di una “centuriazione etrusca” risalente al VII-VI sec. aC nel cuore della Piana fiorentina-pratese, nonché la rilettura storico-urbanistica di Vipsul-Faesulae (Fiesole), lui che ebbe a chiosare il suo postulato scrivendo: «È in verità impressionante constatare che, per due volte, pressoché la stessa regione dell’Italia centrale, l’Etruria antica e la Toscana moderna, sia stata il focolaio determinante della civiltà italiana /…/ La nascita e il Rinascimento dell’Italia hanno avuto la stessa culla, e in questo si riscontra una coincidenza ammirevole, e forse più di una coincidenza». Filtrato da quelle parole, non resta che riconoscere che un’ideale ponte antropologico-culturale, bene aldilà del mito, congiunge dunque antichità e modernità attraverso la civiltà degli Etruschi.

 

Giuseppe Alberto Centauro

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