Fra i tanti incontri sulla cultura, tavoli e tavolate prima delle elezioni regionali, ecco che qualcuno, traballandogli la sedia, invoca la cultura diffusa sul territorio.
Che vuol dire soldi, ovviamente.
E mi invita a partecipare, perché pensa - giustamente - che ho qualcosa da dire.
Certo che ho da dire, ed è questo: non posso partecipare perché ho parecchio daffare nel e per il mio teatro, a cui è stato tolto tutto: dignità (non ci sono riusciti), soldi (ci sono riusciti).
Al solito arrivate tardi e male.
Il Circuito dei Piccoli Teatri della Toscana era un sistema che funzionava poco, ma in qualcosa contribuiva per la cosiddetta cultura diffusa nel territorio. Tanto per fare un esempio.
Ma la Regione ha preferito il concetto di teatro-azienda e quindi i piccoli teatri sono andati a farsi benedire. Si è inventato le residenze, che poi sono tutte fallite. Voi applaudivate alle residenze.
Ma ora abbiamo davanti il vuoto cosmico, e anche i grandi teatri ed entità varie rischiano la fine.
Non è soltanto per mancanza di soldi. Si tratta anche di incapacità, di programmazioni insulse, di conformismo a cui sono obbligati poi i direttori artistici comandati dalla politica.
E poi, cosa volete? Nemmeno mai avete messo piede in un teatro o luogo periferico, non sapete nemmeno quello che significa e comporta.
E ora vi ergete a paladini delle "cultura diffusa", di cui non vi importa nulla, e sventolate bandiere per arginare il fallimento?
E in fondo la mia presenza o quella degli altri che chiamate a raccolta serve solo al mantenimento della vostra poltrona.
Andate al diavolo, con cultura parlando.
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