mercoledì 10 agosto 2011

La città etrusca di Gonfienti, la kylix di Douris e l’offerente di Pizzidimonte

di Michelangelo Zecchini*
                                                                                
La frequentazione etrusca  di Prato era un fatto acclarato già nel XVIII secolo, allorché gli eruditi locali - soprattutto Casotti, Gori e Buonamici - descrissero  e disegnarono con attenzione bronzetti a figura umana e manufatti vari rinvenuti casualmente e a più riprese nell’area cittadina e nel suo hinterland. In particolare Gori illustrò un kouros e una kore, alti circa 10 cm  («ritrovati sotto un metro di terra a circa quattrocento metri fuori dall’attuale piazza S. Marco a Prato, sulla vecchia via Fiorentina, in una zona oggi completamente coperta da palazzi moderni»[1]), riferibili a una produzione locale o regionale del 500 circa a. C., e una moneta[2]. Gli uni e l’altra dimostrano che il sottosuolo di Prato conserva importanti testimonianze di epoca tardoarcaica ed ellenistica.

La città etrusca tardoarcaica di Gonfienti

Le prime strutture e i primi reperti mobiliari di quella che oggi viene universalmente riconosciuta come la grande città etrusca sul Bisenzio affiorarono fortuitamente mentre cominciavano i lavori di costruzione dell’Interporto della Toscana centrale. La scoperta venne inizialmente sottovalutata, il che è assolutamente normale nella fase di impostazione delle ricerche. Meno accettabili appaiono, a scavo inoltrato, singolari proiezioni scientifiche secondo le quali Gonfienti costituirebbe un’emanazione coloniale di Artimino.
Le pur ampie campagne stratigrafiche, iniziate nel 1999 e condotte con lodevole impostazione multidisciplinare[3], non possono che essere considerate preliminari. Le indagini hanno circoscritto un’area di pregio archeologico di almeno 17 ettari, ma l’estensione è senza dubbio di gran lunga maggiore, con ogni probabilità superiore a quella di Marzabotto, il cui impianto urbanistico, tipologicamente affine a quello di Gonfienti, com’è noto occupa una superficie di circa 25 ettari.
L’abitato etrusco, che si trova presso il borgo di Gonfienti e ha di fronte, verso nord, le propaggini meridionali dei Monti della Calvana con l’altura di Pizzidimonte[4], essendo stato costruito su un lieve rialzo della conoide formata dal fiume Bisenzio e dal torrente Marinella,  si connota come un insediamento inter amnes.
Finora sono venute in luce una serie di strutture abitative a pianta rettangolare, costruite a secco con pietre e ciottoli, corredate da strade e canalizzazioni perimetrali che si intrecciano ortogonalmente secondo ritmi modulari che portano alla mente l’organizzazione urbanistica di Marzabotto. Allo stato attuale delle ricerche l’edificio più importante della città etrusca di Gonfienti, di cui non si conoscono i limiti, appare quello scavato nel lotto 14. Si tratta di un’ampia dimora di circa 1440 mq suddivisa in ambienti interni che cingono un cortile aperto, con ogni probabilità porticato. Fortuna ha voluto che a sigillare parzialmente le forme di vita della domus abbia contribuito il crollo del tetto, rimasto sostanzialmente intatto con la sua grande quantità di ceramiche d’impasto grossolano o depurato, a scisti microclastici o a inclusi calcitici (coppe, piattelli, alzate, olle, etc.), di buccheri di tradizione locale o regionale (coppe su alto piede, kyathoi, kylikes, calici, etc), collocabili tra gli ultimi decenni del VI e un momento avanzato del V secolo a. C.. Del crollo facevano parte elementi costitutivi del tetto quali numerose tegole, coppi e, soprattutto, quattro antefisse configurate a testa femminile, con orecchini a disco, racchiusa entro nimbo baccellato. Tali decorazioni architettoniche, pregiate e rare, costituiscono un indice attendibile del rango sociale dei proprietari. Status di primo piano che, se ce ne fosse bisogno, è avvalorato dal recupero di ceramiche attiche di prestigio fra cui spicca la kylix di Douris.
Secondo i protagonisti dello scavo il settore del cosiddetto scalo merci, dove fra l’altro sono stati rinvenuti due  pozzi solidamente strutturati a secco con filari sovrapposti di pietre e ciottoli, datati alla prima metà del V secolo a C. per la presenza di un’oinochoe a motivi fitomorfi, «doveva costituire il territorio ad uso agricolo circostante il centro urbano»[5]. Non è un’ipotesi da scartare, ma allo stato attuale essa non ha elementi per prevalere sulla tesi opposta, cioè che i pozzi, siti in ambito urbano, siano pertinenti ad abitazioni destrutturate nel corso degli sbancamenti, dei livellamenti e, in genere, dei complessi interventi edilizi  di epoca romana.



Fig. 1 - Distribuzione dei principali ritrovamenti; sulla carta è stato riportato anche un tratto della ‘macchia’ rettilinea intersecata ortogonalmente dal «fosso del ciliegio» (g. c. prof. Centauro).


L’analisi di una serie di fotografie aeree anteriori ai lavori dell’interporto mostra a sud di villa Niccolini (Comune di Campi Bisenzio) una macchia piuttosto uniforme, rettilinea e lunga oltre 500 metri, il cui limite occidentale è prossimo a un’ansa del Bisenzio. Tale banda, tagliata ortogonalmente dalla Gora del Ciliegio, che dunque parrebbe la sopravvivenza di un impianto
tardoarcaico (cardo o canale o fossato), è parallela al tratto di probabile decumano, scavato e poi reinterrato (area scalo merci), orientato di 122° SE in direzione di Sesto Fiorentino-Firenze e di 302° NW in direzione del fiume Bisenzio e di Prato. Se, come sembra, non si tratta di un’illusione ottica, ma delle tracce di un’arteria stradale o  del decumanus maximus o di un grande canale urbano, i limiti della città si dilaterebbero ben oltre i 50 ettari (per difetto, e non imprevedibilmente) e la domus gentilizia verrebbe a trovarsi presso il vertice NE del quadrante sudorientale. Comunque stiano le cose, è un fatto che i cardini della città hanno un orientamento NNE/SSW, con una declinazione di circa 30° est rispetto al nord. Stesso orientamento ha la maggior parte dei fossi e dei campi tutt’intorno, il che sta a significare che la suddivisione agraria attuale replica quella di 2500 anni fa e pare estendersi per chilometri verso tutti i punti cardinali.
Se fosse corretto basarsi sulla superficie delle singole case, il confronto dimensionale d’insieme si risolverebbe a favore della città sul Bisenzio sia rispetto alla coeva città di Marzabotto sia in rapporto alla Roma tardoarcaica con la sua domus regia del Palatino, attribuita ai Tarquini, con la quale la domus gentilizia bisentina condivide grosso modo pianta e articolazione interna. Infatti la prima può contare su 1400 mq circa della sua dimora patrizia contro  800 mq della seconda e 690 mq della terza.
Alla luce dei dati attuali, la città etrusca di Gonfienti si qualifica, dunque, come centro internodale primario di smistamento transappenninico di prodotti vari, catalizzatore di merci e traffici dai centri costieri e dell’interno verso i porti dell’Adriatico (minerali in primis) e del Tirreno. L’orientamento est-ovest degli assi viari urbani, che presentano una declinazione di circa 30° nord rispetto all’ovest, è sostanzialmente il medesimo riscontrato nella coeva strada glareata etrusca del Frizzone (Capannori, Lucca), il che indirizza gli studi verso una programmazione infrastrutturale ed urbanistica ad ampio raggio finora impensabile.


La kylix attica di Douris

Fig. 2 - A sinistra, particolare della kylix di Gonfienti, lato A; a destra, particolare della kylix di Douris, con Eracle e Lino, conservata al Museo di Monaco. Disegno: Silvia Zecchini.





A mio avviso la kylix attica a figure rosse venuta in luce a Gonfienti è stata riferita correttamente a Douris[6] - o comunque alla sua bottega – e, in modo altrettanto appropriato, è stata datata intorno al 475-470 a. C..  Attribuzione e cronologia mi paiono confortate dai confronti stilistici con altre opere firmate dal Maestro. Si veda, per esempio, la kylix 2646 a figure rosse  da Vulci[7], in cui il personaggio principale, Eracle, è assai vicino sia nella posizione sia nella resa anatomica d’insieme - pur considerando l’anteriorità dell’esemplare vulcente - all’armato con postura obliqua ‘da azione’ che nella kylix di Gonfienti protende una lancia verso Eros.







 La coppa bisentina è senza dubbio un lavoro pertinente alla fase finale dell’attività pittorica di Douris e, di conseguenza, il segno elegante e sicuro che ne connota i tempi della maturità artistica appare un po’ appannato; ma questo non sembra sufficiente ad escluderne la paternità in favore di un allievo o di un imitatore, sia pure di talento, come il Pittore di Triptolemos che, com’è noto, si firmava Douris per avvicinarsi il più possibile al Maestro e che, tuttavia, «non riusciva a comunicare neppure un’eco di quella inconfondibile poesia e tenerezza che permane anche nelle più povere e disintegrate tra le tarde opere di Douris»[8].
L’interpretazione più verosimile delle raffigurazioni presenti sulla kylix di Gonfienti mi sembra quella di A. Cottignoli della ArtWach Internacional, Inc. di New York[9] che, in sintesi, propone la seguente lettura:
-       medaglione centrale: Eros e Maestro;
-       lato A: Eros su carro trainato da cigni con personaggi armati che lo inseguono;
-       lato B: Hypnos e Thanatos, alati e armati, si prendono cura di un corpo sdraiato a terra.



Fig. 3 - Kylix attica a figure rosse di Douris (circa 470 a. C.):  medaglione interno e decorazione esterna. Disegno curato da G.A. Centauro e C. N. Grandin, 2008 (g.c.).



Per le implicazioni esegetiche che comporta, ritengo opportune alcune osservazioni sul lato B. Allo stato attuale delle conoscenze, le due figure affrontate, armate e provviste di ali portano  alla mente d’istinto, come giustamente ha sottolineato Cottignoli, il celebre cratere a calice a figure rosse, firmato da Euphronios  nel 515 circa a. C., già al Metropolitan Musem of Art di New York.  Sulla  faccia principale sono raffigurati «Sleep and Death Carrying off the body of Sarpedon »[10], figlio di Zeus e re dei Lidi, ucciso da Patroclo  con un colpo di  lancia che «da’ suoi ripari il cor gli aperse il
petto»[11]. In tale cratere, che relativamente alla pittura vascolare per questo mito rappresenta un prototipo, il Sonno e la Morte si presentano per l’appunto alati ed elmati,  così come elmati e armati sono i due guerrieri laterali affrontati, mentre dietro, rivolto a sinistra, sta Hermes con petaso e caduceo.





Fig. 4 - Hypnos e Thanatos trasportano il corpo di Sarpedon, ucciso da Patroclo. Cratere a calice, a figure rosse, firmato da Euphronios, circa   515 a. C.. Disegno: Silvia Zecchini.


Una raffigurazione simile connota anche la faccia principale del cratere a calice a figure rosse del Museo di Agrigento (490 a. C. circa), riferibile se non al pittore di Kleophrades certo a un artista a lui molto vicino[12]. Hypnos e Thanatos, elmati ma apteri, trasportano un corpo  esanime, il cui spirito (eidolon) si libra minuscolo ancora del tutto armato. Ai lati compaiono due personaggi elmati, mentre al centro c’è un guerriero parzialmente coperto dal suo scudo.
Si può aggiungere che nella pittura vascolare attica, anche della seconda metà del V secolo a. C., non mancano altre coppie di personaggi alati, sia pure non elmati, con posizione e atteggiamento consimili, nei quali sono stati ravvisati Hypnos e Thanatos: si vedano, fra i possibili esempi, le lekythoi a fondo bianco del Pittore di Thanatos[13] e del ‘Quadrate Painter’[14].

L’offerente bronzeo di Pizzidimonte

A  Pizzidimonte, distante appena due km circa da Gonfienti, fu scoperto il celebre offerente togato di bronzo, alto 17 cm,  oggi conservato presso il British Museum di Londra. La statuetta fu rinvenuta, come ha scritto il Gori, «Hoc ipso anno 1735 prope Pratum Etruriae civitatem, in loco, qui vulgo dicitur Pizzirimonte…»[15], e poi fu custodita dall’erudito pratese Giuseppe Bianchini.
Il personaggio maschile, stante ma con lieve accenno dinamico nel piede sinistro che sopravanza il destro, è fasciato da una lunga toga che sul davanti forma morbide increspature trasversali e sul retro si distende a sinistra in plastiche pieghe ondulate contrastanti con la verticalità mediana dell’orlo. Il mantello mostra un’accurata sintassi decorativa a incisioni geometrizzanti: all’altezza del torace è presente una fascia costituita da onde irregolari stondate o acuminate con punti centrali, marginate in basso da una teoria ininterrotta di cerchielli; sia di fronte che dietro, sul lato sinistro


Fig. 5 – A sinistra l’offerente bronzeo di Pizzidimonte nel disegno di A. F. Gori 1737; rielaborazione da C. Pofferi  2005 (g. c.). A destra schema della sintassi decorativa incisa sulla toga, all’altezza del torace (in alto) e sotto le ginocchia  (in basso). Disegno: Silvia Zecchini.


del corpo, la banda - bordata in alto da una successione di triangoli puntati (quasi sempre al centro, occasionalmente  al vertice) e in basso da una sequenza di lineette più o meno parallele - è caratterizzata da una sequenza di rombi (con due punti interni) inframezzata da triangoli (con un solo punto centrale). La toga lascia scoperta la spalla sinistra e le braccia consentendo di apprezzare particolari anatomici (clavicola, braccio, pettorali, muscolatura) che denotano prestanza fisica.  I piedi sono fasciati dai tipici calzari a punta, allacciati e provvisti di decori incisi. I caratteri stilistici permettono di proporre una cronologia intorno al 470 a. C.. Posizione e concezione figurativa sembrano trovare un corrispondente molto stretto nel Fufluns di Modena (stesse dimensioni, medesimo piede sinistro incedente, affinità nella disposizione del mantello, similitudine nella fascia con incisioni a denti di lupo a dividere il torace in diagonale) e un prototipo nell’offerente populoniese trovato all’isola d’Elba e datato al 500 circa a. C.[16].
E’ stato osservato come il piccolo capolavoro della Calvana, riferito a una bottega etrusco-settentrionale, sia affine nel volto alla testa Lorenzini di Volterra e porti con sé le impronte stilistiche della toreutica populoniese[17]; c’è da chiedersi se, stanti i ritrovamenti antichi e recenti di bronzi di buon livello qualitativo nel comprensorio, l’offerente togato di Pizzidimonte, con il suo sorriso appena accennato ed enigmatico, non sia uscito piuttosto da un’officina locale, magari diretta da un maestro migrato da Populonia insieme con minerali e tecniche metallurgiche.

Acmé e crisi

Fra metà VI e metà del V secolo a. C. nella fascia dell’Etruria settentrionale a nord dell’Arno si verifica una vera e propria esplosione degli insediamenti e si assiste a una generale rivitalizzazione del territorio, certamente connessa con i rinvigoriti traffici marittimi lungo le coste tirreniche e lungo strade maestre solidamente strutturate (via del Frizzone) e itinerari appenninici, da Pisa a Spina attraverso Marzabotto/Bologna. La maggiore apertura commerciale è sottolineata dalla diffusione di vasi attici a figure rosse talora dipinti da pittori di primo piano come Douris.. A questo momento di floridezza, che permane fin poco dopo il 450 a. C. e che traspare in modo generalizzato dai manufatti restituiti da abitati e sepolcreti, non è certamente estraneo il commercio del ferro dell’isola d'Elba (e forse dei minerali tratti dalle Apuane e dal Monte Ferrato[18]) che i villaggi etruschi della piana lucchese/pistoiese/pratese, fungendo da centri secondari di smistamento, afferiscono al centro primario e nodale della città di Gonfienti, che lo redistribuisce alla valle Padana[19]. Tracce consistenti di minerale e scorie sono state trovate a Fossa Nera e al Romito di Pozzuolo  presso Lucca[20] in quantità modeste ma significative perché in associazione stratigrafica con ceramiche e anfore che consentono una loro datazione tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo a. C.. Il periodo di acmé si diluisce poi, dalla metà del V secolo al terzo quarto del  IV secolo a. C., dapprima in modo poco percettibile poi in maniera sempre più  marcata, in una crisi dovuta a un’avversa combinazione di eventi politici e climatici
Si deve rilevare, innanzi tutto, che gli Etruschi già nel 474 a.C.[21] subiscono da parte dei Siracusani una non lieve disfatta navale nelle acque di Cuma,  i cui effetti cominciano a farsi sentire sui traffici marittimi internazionali dai quali, in maniera non episodica né marginale, dipende - mediata dal centro propulsore di Pisa - l’economia degli abitati dell’Etruria settentrionale. Ma è  intorno alla metà del  secolo che gli Etruschi  vedono pesantemente attaccato il cuore dei loro interessi economici:  infatti nel 454-452 a.C.[22]  le flotte siracusane si dirigono, sotto il comando di Faillo e di Apelle, contro  l’isola d’ Elba e, prima di occuparla, mettono a ferro e a fuoco i centri marittimi dell'Etruria minando la loro sopravvivenza e, di riflesso, quella dei centri  dell’entroterra. E’ possibile comprendere compiutamente quale stato di aleatorietà e quali difficoltà  caratterizzino quei momenti per gli Etruschi di tutta l’Etruria settentrionale a nord dell’Arno,  se si pensa anche  alle pressioni esercitate via terra dalle invasioni celtiche. Per di più, a completare il quadro, non si può non fare riferimento  alle disastrose inondazioni fluviali (Auser, Ombrone, Bisenzio) i cui  sedimenti sigillano non pochi degli insediamenti etruschi di V secolo finora scavati. Esemplare, a tale proposito, è lo spaccato stratigrafico dell’abitato etrusco di Fossa Nera A presso Porcari, in cui sono documentati due eventi alluvionali intercalati con altrettanti livelli di vita.  Che lo sciame esondativo della metà circa del V secolo a. C. abbia avuto un effetto devastante e progressivo, scardinando il sistema abitativo d’epoca etrusca tardoarcaica, lo dimostra il fatto che intorno a quella data, o poco dopo, cessa il ciclo vitale dei siti finora indagati.





* Archeologo, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti.
Ringrazio il prof. Giuseppe Centauro, profondo conoscitore del territorio e della sua storia, per  i preziosi  consigli.

[1] Si veda da ultimo C. Pofferi, Dai principi alla città etrusca sul Bisenzio: l’orientalizzante e l’arcaico etrusco nella piana fiorentina-pratese-pistoiese, Firenze  2005,  p. 31.
[2] Si tratta di una didramma populoniese, contrassegnata sul recto (il verso è liscio) con doppia XX (= 20), databile nella seconda metà del IV secolo a. C..
[3] G. Poggesi, Prato- Gonfienti. Lo scavo del’edificio del lotto 14 e la prosecuzione delle indagini geofisiche fra Prato e Campi Bisenzio, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana », Firenze 2005, p. 80. 
[4] Per le restituzioni e i problemi archeologici della Calvana si veda G. A. Centauro, Presenze etrusche in Calvana. Siti e necropoli, Firenze 2008.
[5] Cfr. G. Poggesi, P. Pallecchi,E. Bocci, G. Millemaci, L. Pagnini, Prato- Gonfienti. Interporto della Toscana Centrale: gli interventi nell’area dell’insediamento etrusco, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana », Firenze 2006, p. 72.
[6] Cfr., supra, G. Poggesi, Prato- Gonfienti., op. cit. in nota 3, p. 82.   
[7] John Boardman, Rotfigurige Vasen aus Athen, Die archaische Zeit, Mainz 1981, fig. 296.
[8] E. Paribeni, Douris,  «Enciclopedia Arte Antica Classica Orientale», Roma 1960, III, p. 181.
[9] A. Cottignoli, Il Douris di Gonfienti, 15 gennaio 2011.
[10]  R. S. Folsom, Attic Red-Figured Pottery, Park Ridge 1976, tav. 10.
[11] Iliade, XVI, v. 684.
[12] P. E. Arias, Morte di un eroe, «Arch. Class.», XXI, 2, 1969, pp. 190-203, tavv. LIII-LV.
[13] J. D. Beazley, Attic Red-Figure, 1963, p. 807 sgg.
[14] J. Boardman, Athenian Red Figure Vases. The Classical Period, 1989, fig, 125.
[15] Cfr., supra, C. Pofferi, Dai principi, op. cit. in nota 1, p. 33.
[16] Giglioli G. Q., Un bronzo etrusco arcaico dell’Elba ora al Museo Nazionale di Napoli, «Studi Etruschi», II, 1928, pp. 49-51; M. Zecchini, Isola d’Elba: le origini, Lucca 2001, pp. 93-94.
[17] Cfr, M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara 1985, pp. 267-268.
[18] L'archeologia, di fatto, non ha ancora affrontato seriamente il problema del ruolo  svolto in epoca etrusca dai bacini minerari, per esempio a ovest quello apuano (distretto di Seravezza/Valdicastello dove sono presenti ematite, limonite, malachite, calcopirite, azzurrite, cuprite, allume, cinabro, manganese, ocra) e a est quello del Monte Ferrato con i suoi tre colli (Poggio Ferrato, Monte Mezzano e Monte Piccioli), che non difettano di rame nativo, magnetite, pirite, antigorite, cromite, quarzo.   
[19] Prime ipotesi in M. Zecchini, , Gli Etruschi all’Isola d’Elba, Lucca 1978, fig. 53.
[20] Cfr. M. Zecchini,  Lucca etrusca: abitati, necropoli, luoghi di culto, Lucca 1999.
[21] Diodoro Siculo, XI, 51.
[22] Diodoro Siculo, XI, 88.

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