Molti si chiedono come sia possibile che le persone conducano la loro esistenza in mezzo al traffico continuo, pesante, incessante, travolti dall'inquinamento di ogni genere, e dove l'unica visuale in alcuni casi è solo il cemento.
Invece i giornalisti pensano diversamente. Infatti, dopo che è crollato il Ponte Morandi, qualcuno di loro si è anche scomodato nell'intonare, con i cadaveri ancora là sul greto del Polcèvera polverizzati sotto gli enormi blocchi di cemento, l'epicedio del ponte, cantando quanto era bello e particolare vivere sotto il ponte, in quei palazzi logori, stinti e morsicati dalla salsedine, dalla fuliggine, dall'inquinamento acustico, dalla stanchezza di sopportare tutta quella veloce, avida, transeunte modernità.
Certo, chi là aveva una casa e ora non ha più nulla, si rammarica eccome della perdita.
Ma io so, dal vecchio racconto di una zia paterna di mia madre, quanto sia pesante vivere in quelle condizioni, a ridosso delle autostrade...Manco a dirlo, si tratta di appartamenti che costano poco, svalutati, ma proprio per la loro convenienza sono ricercati e muovono, come si dice, il mercato immobiliare.
Sorprende leggere le parole di giornalisti che quasi celebrano tale modo di vivere, parlano addirittura addirittura di simbiosi!, senza nessuna riflessione critica, incluso architettonica (che l'architettura non tratta solo del bello, ma anche del buono!), senza chiedersi se sia opportuno vivere in un appartamento oscurato da un ponte di tale fatta.
Qui non solo si seppelliscono i morti, ma ogni opposizione, ogni argomento che minimamente metta in discussione la visione cementificata del presente e dei relativi sostanziosi interessi e, correndo di qua e là sui viadotti, è concesso solo constatarne i benefici: come dal centro, grazie al grande ponte, si arrivava all'aeroporto Cristoforo Colombo in soli venti minuti...
In questi commenti traspare solo una immagine di felicità, e il rimpianto perché il grande ponte presto non ci sarà più.
A distanza di cinquant'anni dall'inaugurazione del ponte Morandi persiste quella visione del futuro, fatta di presunto progresso, velocità e gioiose promesse del fine settimana.
Percorrere quel ponte era inquietante: infilarsi nel braccio di immissione a levante, trovarsi all'improvviso in quella curva obbligata nel vuoto, era spaventoso, ché avevi la sensazione che la strada davanti mancasse. E anche il viadotto stesso dava subito l'impressione della non stabilità, con l'asfalto ballerino e le paratie laterali basse e insufficienti.
Il viaggio si faceva incerto, temerario e mostruoso all'improvviso, con quelle braccia di cemento che parevano mangiarti, nonostante fossero già trascorse tante gallerie prima di giungere a quel punto.
18/8/2018 LA REPUBBLICA
CULTURA
All’ombra del viadotto
L’abbraccio
del gigante di cemento
Il
ponte Morandi è stato costruito invadendo i muri delle case di sotto E la
simbiosi non è solo architettonica
MARCO ANSALDO,
GENOVA
Il ponte entra dentro le case. E le case dentro al ponte. Un falso
movimento che crea un’immagine distorta, e fotografa però una sintesi reale.
Una simbiosi architettonica. Un guizzo strutturale. Un abbraccio
ingegneristico. Capace di reggere per più di cinquant’anni, finora. Ma adesso spezzato
dal cedimento centrale del viadotto Morandi.
Le braccia sospese del Frankenstein muto che veglia una Genova ferita
rappresentano tuttora una minaccia viva per gli edifici rimasti vuoti. Undici
palazzi, per adesso, svuotati in fretta e furia delle poche masserizie da
inquilini protetti con i caschi rossi degli angeli custodi della Protezione
civile. Chi di loro ha alzato la testa e guardato per un’ultima volta in su,
come fatto per tanti anni vivendoci, ha visto ancora travi e stralli come
saldati insieme. Un intreccio marcio, adesso.
E però, su quest’incontro così innaturale, le case e il ponte, uniti
indissolubilmente fino alla fine, quando verranno demolite forse le une e
sicuramente l’altro, la gente non solo di Sampierdarena, ma di Genova tutta, ha
vissuto. All’ombra del ponte è transitata, per passare nell’altra parte della
città, a Certosa o verso i quartieri della Val Polcèvera. E sopra il ponte ha
viaggiato, per lasciare il centro, guardare altrove, sbarcare all’aeroporto
Cristoforo Colombo in nemmeno venti minuti di tempo (una
chimera per i grandi centri), oppure saltare verso Savona, Imperia, la Francia…
Immagini che ci restituiscono attimi di quieta irregolarità.
Quando il ponte quasi entrava nelle facciate, e sembrava appoggiarvisi.
Bianco di colore. Di un candore falso, ma così diverso rispetto all’ocra e al
rosso dei palazzi abitati. Tiri su la persiana e sbatti sul cemento del
viadotto. Esci in balcone e il panorama è una sarabanda di traverse inclinate.
Guardi in alto, e vedi il nero, la parte inferiore del viadotto, la fuliggine,
le macchie, le striature scure. Ideale per scrivere graffiti che mai nessuno
avrebbe la possibilità, né il coraggio, di cancellare. Le case di quasi cento
anni fa, adattatesi al ponte, lo hanno accolto nella sua strabordante
imponenza.
Era la metà degli anni Sessanta. Cinquant’anni dopo, ne vengono tradite.
Visto da sotto, è un intreccio di volumi. Un sabba di colonne squadrate. A
passarci in mezzo con l’auto, le gambe aperte dei pilastri evocano lo sconcerto
di Paolo Conte quando in [ Genova per noi metteva insieme impressioni e aggettivi pensati chissà come: «Macaia,
scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia».
Così spaventoso e grande che da un monumento vicino le statue guardano in
direzione opposta, per non farsene travolgere.
I genovesi lo temevano, ma ne erano anche orgogliosi. «Il secondo ponte più
alto d’Europa», dicevano al tempo dei record. E quanti articoli persino
nostalgici si sono letti in questi giorni sui quotidiani, quante dichiarazioni
hanno rammentato la stazza fisica del viadotto. Si sono uditi in tv ex ministri
genovesi quasi in lacrime nel raccontare il loro passaggio giornaliero su
quella strada per raggiungere l’aeroporto. E semplici cittadini che lo ricordavano
con un misto di paura e di stupore non appena aprivano le finestre di casa. E poi, ovviamente, c’è chi lo vedeva solo con
spavento, con orrore. Un’opera magnifica dell’uomo, ma al tempo stesso
inquietante, ingestibile, ingovernabile, come purtroppo è. E adesso che il
mostro muore, c’è la corsa ariprenderlo. Per l’ultima volta. Il ponte malato.
Il ponte assassino. Il viadotto della morte. Che un domani non esisterà più, e
comunque non si sa che cosa verrà al suo posto. Meglio fissarlo nella pellicola
per sempre, se non nella memoria. E farlo da ogni lato, che ogni
lato è diverso.
Perché come il poeta di Asti, quello che da fuori ha capito Genova meglio
di noi che ci stiamo dentro, chissà che «quel posto dove andiamo non
c’inghiotte, e non torniamo più».
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Queste fotografie sono di Michele Guyot Bourg della Genova anni '80.
Queste fotografie sono di Michele Guyot Bourg della Genova anni '80.
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