Caro Malaparte,
sto rileggendo, con fatica, La Pelle.
La tua prosa debordante, tu sempre protagonista, lo stupefacente farcito affresco di Napoli (ti dovrebbero fare un monumento per come hai dipinto, come nessuno, i napoletani), il ritratto ironico e ostile degli americani e della gioventù di sinistra di allora, tutto tutto mi fa fermare nella lettura ogni poche pagine per riprendere fiato.
E tutto sa di malattia, in te. Di marcio. A proposito: mi chiedo se il titolo del film Pasolini, Mamma Roma, del 62 non sia un calco del tuo Mamma Marcia, che è del 1959, pubblicato postumo...
E ti ho pensato, in questi giorni, che sono stata malata.
Non di COVID19, di questo virus-peste che tu non hai conosciuto, ma che avresti certamente in qualche modo amato e descritto. Come avresti fatto con l'AIDS.
No, la mia è stata una malattia da stress.
Dopo due anni di pandemia, con impedimenti e clausure, crudeltà e barbarie di ogni tipo che abbiamo subito, quando la vita è ripresa un po' normale mi sono cadute addosso altre tegole, tutte mie. Genitori anziani, per esempio, da accudire. Nei giorni passati poi la mamma, a causa di un terribile herpes zoster oticus che l'ha colpita, ha perso l'equilibrio e si è rotta il femore.
Ed è rimasta una giornata intera parcheggiata al pronto soccorso dell'ospedale di Prato. Lì, su una barella.
Solo a notte l'hanno portata in reparto e poi, dopo due giorni, operata: l'operazione è andata bene, anche perché mamma, nonostante l'età, non soffre di osteoporosi.
A nemmeno una settimana dall'intervento l'hanno rimandata a casa. Di già?
L'ortopedico mi ha risposto che in realtà l'hanno tenuta un giorno in più del previsto, e solo perché è stata una vera paziente l'hanno voluta premiare con cura più estesa: non ha mai chiamato l'infermiera, non si è mai lamentata, ha fatto tutto quello che le hanno chiesto, ha preso quello che doveva. Tutti gli infermieri che l'hanno trattata si sono complimentati con me. Sul serio.
Ma lei non s'è comportata così a sommo studio, no, per ingraziarsi chissà chi! Non è proprio il tipo.
Per lei è stato naturale rimanere ore e ore in silenzio, senza cellulare, senza palmare, senza televisione, sola con sé stessa, senza mostrarsi al mondo, perché così ha visto fare ai suoi antenati davanti alla malattia e alla morte.
E' rimasta con sé stessa come solo la gente di una volta era capace. Un misto di rassegnazione, fatalità, fiducia, fede. O una forma di lotta.
Poi, una volta tornata a casa, mi sono dovuta occupare della sua assistenza e della trafila per la fisioterapia, che è allucianante, voglio dire quella pubblica.
Mentre accadeva questo e avevo gli spettacoli da fare ed ero reduce di una pesante tournée all'estero e di altri problemi, te l'ho detto faccio teatro, ecco che è accaduto e sono crollata.
Da alcuni giorni sentivo di non star bene, ma tenevo. Poi qualche notte fa mi è venuta la febbre altissima.
Verso le 4 del mattino mi sono svegliata in un lago di sudore, ma come se fosse posto su un vulcano in fiamme. Ho preso il termometro a pistola che avevo sul comodino e ho sentito il suono di allarme ripetuto per ben quattro volte, che mi urlava: hai la febbre a 40!
Per uno strano caso - ma forse anche no - ero sola a casa.
Ho pensato di chiamare l'autombulanza, e di consegnarmi all'ospedale. Per un attimo, confusa e stordita, ho provato paura.
Morirò?
Mi sono ricordata che la porta di casa era chiusa con la serratura blindata, chi avrebbe potuto aprirla da fuori? Dovevo scendere io ad aprire, e io non ero in grado. Non ero in grado! Non mi tenevo in piedi ed ero travolta, oltre che dalle fiamme, da bridivi ghiacci, spilli!, e vagellavo.
Ho preso il telefono in mano, ma l'ho subito riposto. Ho adocchiato l'orologio, erano le quattro e dieci del mattino. Ho aperto il cassetto del comodino, ho afferrato tremando due pasticche di paracetamolo, l'ho ingollate e ho bevuto acqua dalla boccia che tenevo ai miei piedi, ho bevuto ho bevuto ho bevuto. Un litro intero.
Mi sono distesa di nuovo sul mio letto lago. Ancora tremavo e avvampavo.
Ho ripercorso le ore di silenzio di mia madre, a quando l'ho vista distesa dolorante sul lettino del pronto soccorso, e di tutti quelli che in quel giorno che vi sono entrata come un pirata, ho scoperto solitari e doloranti come lei sulle barelle.
Ore e ore passate da soli. Affidati a chi?
Ho detto no, non chiamo nessuno. Non entro nel girone infernale dell'ospedale. Meglio da sola a casa mia.
Ho sospettato di aver preso il virus maledetto, il Covid19, ne ero quasi certa, ci hanno così condizionati!
E allora ho provato terrore, terrore di finire nel sistema sanitario carcerario.
Già pensavo alle vie di fuga.
Ma il giorno dopo con il tampone ho verificato che nemmeno questa volta mi ero ammalata di quel virus, e la dottoressa per telefono mi ha confermato che le sembrava proprio la tipica febbre da stress: alta forte quasi impossibile da sopportare, ma che va via presto.
E così è stato.
Ho così vissuto la notte più solitaria e allucinante e dolorosa della mia vita, ma mi sono salvata imitando i vecchi, senza volerlo: restare immobili e non chiamar nessuno, solo accompagnarmi di quel silenzio e dei pochi gesti asciutti, Malaparte devo dire toscani? che hanno riempito le nostre vite.
Ce l'ho fatta. La pelle è salva.
(Da Lettere a Malaparte).