Ricordo che questo vestitino che forse voleva alludere a Biancaneve, ma chissà, me lo cucì mia madre.
Sembro una brunetta, ma è solo l'effetto del bianco e nero. Ricordo il nome del fotografo, Carlo, che mi chiedeva di prendere le pose più false e assurde. Rammento la sua faccia, perfettamente. Lui era bruno.
Le fotografie di queste tristi feste organizzate in quel luogo tutt'altro che ameno non le ho mai mostrate a nessuno.
Rimosse. Nascoste. Forse le ho buttate, bruciate, ed è rimasta solo questa, e un'altra forse.
Dietro questo mio mesto sorrisetto c'erano le angherie e le violenze, e la minaccia costante del "ti mando ai celestini".
Gli spilloni conficcati nella mano sinistra ripetutamente.
Per fortuna mi tolsero da quel lager, anche grazie al processo del celestini e a tutta quella vicenda.
Solo molti anni dopo seppi che a noi bambine non ci potevano mandare ai celestini.
Come racconto nella Mostra Parlante, dopo il processo dei celestini quell'istituto fu chiuso per sempre, e una delle carceriere, Suor Luisa, finì anche processata, ma solo per truffa perché non aveva i titoli per insegnare. Nonostante amasse tracciare sui quaderni delle bambine lo zero spaccato, e tanto affondava la penna in quell'O che forava il foglio. Poi, come raccontano anche altre, e una l'ho incontrata anche alla Mostra sabato scorso, si finiva nello sgabuzzino al buio. O in altro modo punite. Legate nei lettini, e sulla pipì che capitava di fare perché eravamo legate e non si poteva andare al bagno, ci strusciavano il viso come si fa ai cani.
Al Comune di Prato, come mi raccontò un ex dipendente comunale, sapevano tutto. E appunto, dopo lo scandalo dei celestini, nascosero tutto.
Sono rimasta mancina.
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