lunedì 11 maggio 2015

"M'è preso il raptus"

Riprendo una dichiarazione interessante sull'inesistenza del raptus.
Alcuni, dopo aver commesso violenza, si difendono con la frase: 'M'è preso un raptus'. Ma gli psichiatri affermano, come dichiarato nell'articolo che copio sotto, che il raptus non esiste. Esiste invece la malvagità, che spesso se la prende con i più deboli e con coloro che non possono difendersi, come è successo alla tassista romana violentata dal 'padre di famiglia'.

«Ci avrei giurato»
Cosa?
«Che anche questa volta si sarebbe usato il termine “raptus”».
Succede spesso.
«Troppo spesso, direi. Sotto il cappello del raptus, o alcune volte della follia, si mette la violenza inaudita, quella imprevista, impulsiva. E non si considera mai che, guarda caso, quella violenza ha come oggetto i più fragili, i deboli, le persone indifese e quindi le più esposte. Lei ha mai sentito dire di qualcuno colto da raptus che ha assalito un uomo grande e grosso?».
Claudio Mencacci è l’ex presidente della Società italiana di psichiatria oltre che il direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano. E dice che «noi, in psichiatria, tendiamo a escludere l’esistenza del raptus».
Sta dicendo che è un termine senza senso psichiatrico?

«Esattamente. Serve molto a chi fa le perizie per giustificare le azioni di grande violenza e attenuare la gravità del fatto e la colpa di chi le commette. Servirebbe invece un impegno culturale e civile perché questo non succedesse. Per non giustificare mai la prevaricazione, la prepotenza, la violenza esplosiva e cruenta. Perché giustificare in un certo senso è come avallare l’idea che sui più deboli si possa accanire la violenza».
Perché chiamare in causa la follia davanti alle cronache più nere?
«Perché si vedono le cose dal fondo e non si riflette su ciò che c’è dietro. Bisognerebbe imparare a capire che ci sono individui che covano malvagità, crudeltà, cattiveria. Che quando accade un fatto di violenza apparentemente improvvisa c’è sempre una spiegazione, un motivo che si è costruito nel tempo. Non è mai un fulmine a ciel sereno e tendere a giustificare non aiuta nemmeno a cogliere i segnali di un eventuale pericolo».
Pensa a un caso in particolare?
«Penso alle donne che muoiono uccise dai propri partner perché scambiano per amore quel che amore non è. Oppure al padre di Motta Visconti che ha sterminato la famiglia: tutti a dire che era la persona migliore del mondo ma la famiglia per lui era diventata un peso insopportabile e, come si fa con i pesi, lui l’ha eliminata. È la banalità del male. E poi ci sono anche le statistiche che ci aiutano a capire».
Quali statistiche?
«Per esempio quelle che ci dicono che gli uomini che fanno del male ai propri figli hanno tendenzialmente fra i 30 e i 45 anni e utilizzano quasi sempre un coltello o una pistola. A differenza delle donne che commettono invece infanticidi usando oggetti casuali, a volte per annegamento o soffocamento».
Quali sono le condizioni che possono aumentare il rischio?
«L’alcol e la droga possono di sicuro aumentare l’impulsività, ma c’è anche l’odio che si accumula e cresce nell’individuo in modo latente per poi esplodere».
Nessuno pensa mai che fatti gravi come questa bimba uccisa possano capitare nella propria famiglia…
«È così. Spesso pensiamo che il seme del male cresca a casa degli altri perché cerchiamo di espellerlo dai luoghi e dalle persone più care. E invece il male può essere ovunque, la cattiveria alberga anche a un passo da noi. Riconoscerla mentre cresce può voler dire salvarsi».

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