Ieri si celebravano gli ottanta anni esatti dalla morte di Gramsci. Quest'anno sfila la solita retorica anniversaria, ma in realtà pochi lo hanno letto. Non si studia, che dico, questo straordinario pensatore politico, questo valoroso intellettuale del Novecento non si cita nemmeno a scuola.
Io sì, ho letto alcune sue opere anche grazie a un regalo che mi fu fatto da un conoscente iscritto e militante in una sezione di un Partito Comunista, ormai in smantellamento e in procinto di cambio di simbolo e sede. Alcuni vecchi compagni, or sono non troppi anni fa, si ribellarono al futuro di indifferenza e macero a cui erano destinati i libri della biblioteca di sezione, tutti edizioni ora pregiate, e li regalarono ad alcuni amici. Io scelsi Gramsci. Quelli che si vedono nella foto sotto non sono tutti, ma solo alcuni che sto rileggendo. Tra l'altro ricordo che furono le recensioni di Gramsci a rendere Pirandello popolare, il quale prima era "o sopportato amabilmente o apertamente deriso". (Così Gramsci scrive alla cognata Tatiana dal carcere).
Copio qui due passi famosi, che vale sempre la pena di rileggere:
"La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri". (Da "Socialismo e Cultura", Il grido del popolo, 1916)
L’indifferenza
è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia.
Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è
ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la
materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si
abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà,
lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al
potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo
e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la
tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e
allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia
non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del
quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e
chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano
pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano:
se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia
volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio
gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da
eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito
che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e
specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di
non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono
partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività
della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale
non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla
fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che
stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo,
sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. (Da Indifferenti, La Città futura, 11 febbraio 1917).