Un grande buco nero pare stia ingoiando Prato e la sua effimera, quanto fastosa ed apparentemente inossidabile epopea post-industriale moderna, piegando l’orgoglio della città a chiedere doveroso sostegno alla Stato. Un puntello pubblico in un momento generalizzato di crisi, per carità da intendersi come parziale e temporanea restituzione di ciò che l’operoso e fedele fare della città e del suo distretto industriale ha saputo dare alla nazione.
Corsi e ricorsi della storia per una città che si vuole ineluttabilmente destinata a scendere improvvisamente la scala, proprio quando la meta del podio finale appariva ormai stabilmente raggiunta. Un protagonismo sempre annunciato, accarezzato, assaporato con grandi colpi d’ala e d’ingegno, collettivo ed individuale, eppure mai conclamato alla luce del sole, forse volutamente nella consapevolezza di non doversi trovare in cima, in bella vista, per poi inevitabilmente dover scendere e ricondursi senza meriti ad un ruolo gregario.
La sindrome del Sacco di Prato, ecco che torna e si fa pesantemente sentire.
Ma c’è una differenza col passato perchè l’aiuto che in piazza s’invoca per la città, pare venire meno proprio all’interno di questa e, come è capitato nel passato, da quello più remoto a quello storico di mezzo millennio fa, fa sentire dolorosamente il proprio velenoso morso.
Più che l’illegalità e la globalizzazione, un’ inarrestabile emorragia interna sta falcidiando le potenzialità del nostro territorio, producendo spaccature e crepe che ci spingono sempre più verso una caduta verticale: i valori etici nel sociale, nell’economica e nella cultura, punti di forza della nostra identità, sono sostituiti da replicanti vuoti, piuttosto disvalori mossi dal parassitismo, dall’affarismo e dall’opportunismo, alimentati da spauracchi, più o meno sbandierati, che minano la sopravvivenza dei capitali accumulati, oggi non disponibili per il bene comune che pure hanno alimentato la loro crescita, capitali oggi piuttosto usati per ripianare la dissennata conduzione finanziaria delle risorse alla ricerca dell’affare del secolo.
Fu il dittatore Lucio Cornelio Silla a metter fine alla gloria dell’etrusca Bisentia, rea di non omologarsi alla visione imperialistica, piegandone le aspirazioni di universalità, ancora vive nella moritura immagine della civiltà etrusca che pure aveva fatto grande l’Occidente, ora sottomessa al prevalere politico di fazioni divise da insanabili guerre fratricide ed interessi contrapposti.
Quindici secoli per rinascere, dal robusto virgulto medievale con un ritrovato senso civico, “comunitativo” nel vero senso lessicale, condiviso in una città vocata al lavoro, per poi, in un sol giorno, soccombere di nuovo, stroncata dall’assolutismo mediceo e dall’oligarchia che, tradendo la missione annunciata, fece Sacco di Prato e della sua visione libertaria dell’operare. La crisi della Prato di oggi appare, diversamente da ieri, soprattutto figlia di un diverso e reiterato disincanto o abbandono che, in primo luogo, corrode le coscienze e alza muri di gomma verso chi si oppone all’inganno di un welfare diffuso che non può esistere nelle forme edulcorate della pubblicità, mortificando le aspettative di chi invece vorrebbe prendere le distanze dall’effimero e dall’edonismo fine a se stesso che condiziona le menti e distrugge l’ambiente, bruciando al tempo stesso gli entusiasmi giovanili di chi idealmente punta ancora sulla storia e sulla cultura per risalire la china, per non farsi risucchiare dal grande buco nero che ormai sta sotto i nostri piedi.
Prof. Giuseppe Alberto Centauro
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