venerdì 18 settembre 2009

Quello che non si dice (della cultura)

Ieri mi telefona una ragazza, una giovane laureata che si occupa di distribuzione di spettacoli teatrali, laureata al PROGEAS di Prato.
La conosco perché era venuta a vedere il Laris Pulenas alla Baracca la scorsa stagione e si era presa la briga di distribuirlo.
Dice di aver sbagliato numero, ma poi ne approfitta per parlare.
Mi confessa di vivere in una situazione tragica, lei insieme a tanti giovani e non giovani artisti, che non c'è lavoro, che non riesce a piazzare uno spettacolo.
I nomi che girano nei teatri sono sempre gli stessi e ora, con la crisi, sono solo quelli.
Fuori di quel giro riesce a piazzare qualcosa solo il teatro contemporaneo DISIMPEGNATO, brutto, strampalato (sono le sue parole) e volgare. Più volgare è, meglio è, perché è quello che piace alla gente, e che ha la possibilità di finire in televisione. Oppure chi lavora sottocosto e a nero.
La ragazza non ha speranza. Con i tagli annunciati in particolare al Comune di Prato, la situazione si preannuncia ancor più tragica. Non sa cosa farà della sua laurea.
Mi chiede come faccia io, che non vivo che del mio lavoro. Già, bella domanda. Ci vivo, è vero, ma - parlando con la licenza dell'eufemismo - non sono affatto ricca. Tutto quello che guadagno è frutto di un lavoro costante, senza tregua, amarissimo.
E' questione di tempo, le dico. Prima o poi smetteremo tutti, gli artisti off, quelli impegnati, quelli indipendenti; ma anche quelli non indipendenti, perché nel tempo del numero e della tecnologia nessuno vorrà più gente di teatro, pittori, musicisti, e quanto altro che non faccia quadrare i bilanci. Saranno considerati inutili; anzi, dannosi.
Solo chi farà girare i numeri potrà vivere d' 'arte'.
Guarda i poeti, le dico, non esistono più. (E già se ne vedono le drammatiche conseguenze).
Maila

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