Dopo la mia lettera a Malaparte, ieri sul Sacco di Gonfienti è uscita su La Nazione questa intervista di Anna Beltrame al Prof. Centauro.
PRATO
Nel 1996, quando a Gonfienti si
scavava per ampliare l’interporto, nessuno avrebbe potuto immaginare che
proprio lì sotto, sepolta dai secoli, giaceva un’enorme città risalente a più
di 2500 anni fa, una sorta di Pompei etrusca la cui scoperta ha rivoluzionato
la conoscenza della storia di quel popolo, la nostra storia. Adesso una
selezione dei preziosi reperti ritrovati nelle campagne di scavo condotte in
questi 26 anni (non senza difficoltà) è esposta al museo da poco inaugurato
alla Rocca Strozzi di Campi Bisenzio. Giuseppe Centauro, docente di restauro
all’università di Firenze, lo ha definito Il Sacco di Gonfienti. Ecco la sua
ricostruzione dei fatti, la sua amarezza, i suoi auspici.
Perché è contrario alla scelta di
Rocca Strozzi?
«Perché non si trova esattamente
a ridosso dell’area archeologica e non si trova neppure a Prato, che grazie alla
Gonfienti etrusca ha scoperto quali fossero le sue più antiche origini. Per
capire la vera natura dell’insediamento si deve contestualizzare la grande
messe dei reperti trovati con gli edifici dai quali sono stati tratti; sono le
moderne scienze archeologiche a dircelo».
Lei si è sempre battuto per
realizzare l’antiquarium degli scavi a Villa Niccolini, a Gonfienti.
«Certo, era lì che doveva
nascere, nel cuore del parco archeologico. A volte, ma non per caso, l’incrocio
degli eventi determina cambiamenti di rotta non prevedibili».
Come ricostruisce questo
incrocio?
«Gli scavi furono bruscamente
interrotti nel 2007 per consentire altri lavori all’interporto. Cinque anni più
tardi furono parzialmente ripresi, ma fu abbandonata l’idea di fare
l’antiquarium a Gonfienti: la direzione scelta dalla Soprintendenza fu quella
di trasferire i reperti alla Rocca Strozzi, per la quale erano nel frattempo
ripartiti gli interventi di messa in sicurezza. Fu così che il museo archeologico
che doveva sorgere a Gonfienti fu dirottato lontano dall’interporto, in quel di
Campi».
Può ricordare per i non addetti
ai lavori la rilevanza dei ritrovamenti?
«Il giacimento è smisurato, oggi
conclamato dai 17 ettari posti in tutela; la sua scoperta ha rivoluzionato la
nostra conoscenza della storia etrusca. Non solo. Oltre alla peculiare
scacchiera urbana dell’insediamento, segno distintivo del progetto etrusco di
città, dal 2001 è stata messa in luce la più grande struttura abitativa finora
conosciuta nell’Etruria settentrionale. Una reggia-santuario di oltre 1400
metri quadri di superficie, risalente al VI-V secolo avanti Cristo, che fu subito
al centro di una ribalta mediatica ben oltre i confini nazionali».
Una dimora sontuosa e ben
conservata.
«Uno stato di conservazione a dir
poco stupefacente, a cui ha contribuito il crollo del tetto, rimasto sostanzialmente
intatto attraverso i millenni, miracolosamente adagiato per scivolamento sul terreno.
La restituzione di una grande quantità di ceramiche in bucchero, patere e tazze
con originali bacili su alto piede e kythoi di produzione locale testimonia la
ricca dotazione di manufatti di epoca etrusco arcaica e tardoarcaica. Del
crollo facevano parte, ovviamente, elementi costitutivi del tetto: tegole,
anche dipinte, coppi e antefisse. Decorazioni architettoniche assai pregiate,
che ci offrono un indice attendibile del rango sociale dei proprietari».
E c’è la kylix a figure rosse che
i pratesi hanno potuto ammirare a Palazzo Banci Buonamici, prima che fosse
dirottata su Campi.
«Un pezzo straordinario
attribuito al noto ceramografo attico Douris che si può datare intorno al 475-470,
come il famoso kouros bronzeo detto L’Offerente di Pizzidimonte, che si
conserva al
British Museum di Londra. In
generale le centinaia di cassette di reperti e la bellezza dei manufatti dopo
il restauro costituiscono un unicum».
C’è molta amarezza nelle sue
parole.
«E’ così. L’ospitalità dei
reperti alla Rocca non restituisce l’indissolubile legame con le straordinarie strutture
urbane ritrovate a Gonfienti e non sono valorizzate le origini etrusche di
Prato, emerse in modo tanto clamoroso quanto inaspettato. Credo sia ancora
necessario battersi per dare un futuro al parco archeologico, gettando un ponte
tra Prato, che ne dovrebbe essere capofila, Calenzano e la piana fiorentina, ma
anche pratese e pistoiese. E’ un falso storico fare di Campi il polo di maggiore
o esclusivo interesse».
Non si arrende.
«Certo che no. Non voglio alzare
barricate ma correggere un’impostazione dialettica tra l’area metropolitana
fiorentina e il resto del territorio, così come la storia ce l’ha consegnato. E
basta separare Artimino da Gonfienti, Fiesole e Firenze da Gonfienti: se non si
capisce questo non potrà mai esistere una corretta relazione tra gli assetti
territoriali etruschi. Per questo è importante che se ne parli, adesso, prima
che una visione distorta della storia si legittimi con il perpetuarsi di palesi
errori e distorsioni. Ma il Sacco di Gonfienti non deve passare sotto silenzio
solo per verità storica, ma anche per Prato. Perché è un po’ come se ci
avessero portato via il Tabernacolo di
Filippino Lippi restaurato da
Leonetto Tintori...».
Anna Beltrame