venerdì 24 luglio 2020

Facciamo teatro, così lo uccidiamo



Aspettavo da tempo la notizia: dopo il teatro-vetrina del tempo del sindaco Romagnoli (così egli definì il suo progetto per il teatro Metastasio - famoso un tempo in tutta Italia per l'aver avuto come direttore un regista come Ronconi eccetera) siamo passati al teatro-salotto, regnante Biffoni al suo secondo mandato (siamo a Prato, per chi non lo sapesse): sono trascorsi una decina di anni e il teatro Metastasio, diretto da Franco D'Ippolito celebra, presentando la prossima stagione (anzi, non più stagione, ma "momento"), e con la buona scusa del corona-virus, la sua fine.
Il direttore artistico è architetto, e quindi quale migliore occasione per trasformare fisicamente il luogo teatro in salotto, con tanto di tavolini per separare gli spettatori (sarà una impressione, ma nella foto i tavolini sono sistemati troppo stretti per un eventuale necessità di fuga),  i quali ormai non hanno più nulla da vedere se non se stessi, magari sorseggiando idealmente un drink, e presentare una programmazione che completa la distruzione del teatro, per sua stessa ammissione: "...Si punterà...per star vicino e sostenere i lavoratori dello spettacolo (altra ottima scusa, tutelare i lavoratori, sic!) a una produzione diversificata, fra spettacoli di prosa, registrazioni di radiodrammi, radio-melodrammi e di trasmissioni radiofoniche di “arte varia” (con la collaborazione di Radio Toscana Classica), produzioni di miniserie video e di uno sceneggiato televisivo in bianco e nero a puntate". (Sottolineatura mia).

L'impostazione fisica apparente della sala richiama quella del cabaret. Ma non c'è nulla del tempo passato, del kabarett della Repubblica di Weimar, del suo umorismo nero.

Il colore nero dei tavolini è solo un elegante gioco cromatico. O al massimo, potrebbero alludere alla morte dello spettatore, alla sua passività o scomparsa. Un tempo il teatro - anche e molto nella sua forma cabarettistica - si opponeva al potere; qui ne è totalmente servo, e serve solo ad amplificarlo, sostenerlo, celebrarlo.

Tra pochi anni anche questi teatri-solotto, pietosi camuffamenti di un prossimo trasloco o chiusura,  saranno archiviati e sistemati nelle cantine degli ingorghi universitari, materia di studi e tesi del tempo che fu. 

Il corona-virus non fa che accelerarne la fine, giustificando ipocritamente un disagio che già c'è da molto tempo; la difficoltà di riempire la sala, di confermare abbonati; l'insensatezza evidente di un teatro che non interessa che a pochi dinosauri ormai; insomma il problema di giustificare nomine e rendiconti con presenze e numeri che non ci sono. Così il virus solleva tutti dalla responsabilità e dalla discussione del perché tutto questo accada (nessuno protesterà, anzi tutti applaudiranno), e renderà pietoso e congruo - sanitario e indolore - il processo di morte culturale già in atto.

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