In una delle sue ultime apparizioni metà-fisiche il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha pronunciato una frase, che potremmo definire sovranista, sulla invasione di termini inglesi nella lingua italiana, come se fosse atterrato ora da Marte: “Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”.
Ma guarda.
Ecco che però arriva pronta la risposta di chi sa come va il mondo, o lo vuole sistemare come deve andare, del giornalista
dell'uno futuro spazio-temporale, non per niente il suo cognome lo annuncia, Riccardo Luna, il quale, in un articolo di "Repubblica" afferma di voler continuare a usare, senza sentirsi colpevole, tutte le paroline inglesi entrate nell'italiano, anche perché da sempre si sono prese a prestito secondo la
dominazione politica e culturale del momento, parole d'altre lingue...D'altronde gli italiani non inventerebbero più nulla, sarebbero in decadenza, e questo dominio linguistico si verifica sempre quando altre culture sono predominanti.
Naturalmente Repubblica provvede da tempo a compensare questo lancio nel futuro linguistico interdominato, che è quello in cui crede e che solo vede, con una rubrichetta etimologica pittoresca, e all'uopo ha chiamato l'artista intellettuale di sistema-successo con patina arrabbiata, che puntualmente spiega il perché e il percome si direbbe, che ne so, "avere le pive nel sacco". Che quello che accade appunto all'italiano in questo momento, che batte in ritirata senza annunciare vittoria con la piva.
Ora, tornando al Luna, egli non si chiede il perché di questa invasione, come se finora fosse anch'egli stato altrove; invasione che esiste da quando gli Americani hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale, e che da allora non hanno smesso di proporci e imporci il loro modello non solo economico, ma di conseguenza artistico e culturale. Basti pensare al cinema, che è stato organizzato in industria e per il guadagno, e per il dominio.
Ricordo che dal punto di vista semantico l'inglese è una lingua che è stata italo-latinizzata dagli umanisti inglesi nel '400. Ma cosa facevano gli studiosi e intellettuali di allora?: se avevano bisogno di un vocabolo, lo prendevano, ma subito lo trasformavano adattandolo alla propria fonetica, cosa che per esempio ancora opera una lingua d'opposizione all'inglese, lo spagnolo, mentre noi, e non solo noi italiani, copiamo il vocabolo inglese pari pari. Subiamo e basta.
Per una bella lista, ragionata di parole imposte in inglese e che invece si possono dire molto meglio in italiano, ci sono tantissimi siti da consultare; io rimando a questo indirizzo, non link!, https://pennablu.it/60-parole-inglesi/ scritto molto bene e ragionato da Daniele Imperi: 60 parole comuni inglesi che si possono scrivere in italiano.
L'opposizione linguistica è altrettanto importante di quella politica, anzi vanno a braccetto, e io come questa pratico quella con piacere e cognizione di causa.
Questo l'articolo del Luna.
“Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, disse Mario Draghi quel giorno (era il 12 marzo) al centro vaccinazioni di Fiumicino. Aveva appena pronunciato (perfettamente, senza “choc” simil renziani) “smart working” e “baby sitting” e a quel punto aveva smesso di leggere il testo che gli era stato preparato, aveva alzato lo sguardo verso gli astanti e pronunciato la frase fatidica che di lì a qualche minuto sarebbe diventata il titolo - giubilante - di tutti i siti di news. Allora, “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”: ma chiediamocelo davvero e proviamo a darci una risposta che vada oltre il legittimo sovranismo digitale dell’Accademia della Crusca, da qualche secolo impegnata nella meritoria difesa della nostra bellissima lingua. Perché non è solo pigrizia, che a volte c’è; non è solo sciatteria, che non manca mai; e non è neppure per darci un tono che usiamo “tutte queste parole inglesi”. Il motivo fondamentale è che da troppo tempo ormai abbiamo smesso di innovare, di inventare cose, e visto che nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza della cose, avendo smesso di inventare cose, non abbiamo neanche coniato i relativi nomi. E’ dannatamente semplice, la risposta.
Prendiamo Internet: inizialmente si chiamava ArpaNet perché era la rete che collegava alcuni computer della agenzia governativa americana Arpa; poi è diventato Internet, che letteralmente voleva dire “rete di reti” perché collegava reti diverse, ma in italiano è rimasto Internet. Venti anni più tardi il world wide web di Tim Berners Lee non lo abbiamo tradotto “la grande ragnatela mondiale”, ma semplicemente il web o www. Lo smartphone secondo la Crusca dovremmo tradurlo come “telefono intelligente”, ma non è affatto intelligente, sarebbe una forzatura chiamarlo così. Un insulto alla nostra intelligenza. Ed è vero che Authority si può tradurre come Autorità (del resto non le hanno mica inventate negli Stati Uniti); ma privacy in italiano cosa diventa? Correttamente, “protezione dei dati personali”: appunto, meglio privacy (che peraltro come diritto nasce, questo sì, negli Stati Uniti, alla fine dell’800, con le prime macchine fotografiche per tutti). Allo stesso modo e-book teoricamente andrebbe tradotto come “libro elettronico”, così come e-commerce è il “commercio elettronico”, ma in questo modo si dà una importanza all’elettronica che nella percezione comune non esiste. La startup (tutto attaccato, senza trattino) non è “l’inizio di qualcosa”, ma una nuova azienda che punta sull’innovazione tecnologica per provare a crescere in fretta, come lo vogliamo dire in italiano? Startup, è facile. Similmente le app sono app, non sono “applicazioni”, e lo streaming non sarà mai “un flusso multimediale di dati audio e video”, ma semplicemente lo streaming.
Il fatto è che tutte queste cose non le abbiamo inventate, le abbiamo adottate, parole comprese. Non è sempre stato così: gli inglesi e gli americani non si scandalizzano di chiamare pasta e pizza alcuni cibi, il tiramisù è intraducibile, mica lo chiamano “get-me-up”, lo ordinano al ristorante proprio come noi (così come a tavola il MontBlanc non è il Monte Bianco ma un dolce francese con molta panna). Non c’è solo la cucina ovviamente tra i nostri prima: il teatro, la musica classica e l’opera sono caratterizzati da moltissime parole italiane a cominciare dal “bravo” con cui il pubblico saluta gli interpreti, primo fra tutti il “maestro” (in italiano); e lo stesso per l’architettura (baldacchino, belvedere, campanile, chiaroscuro…). Del resto la Banca e la Posta, che sono nate in Italia, in inglese si chiamano Bank e Post mica per caso.
Insomma, volendo provare a dare una risposta garbata e costruttiva al presidente del Consiglio alla domanda “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, dovremmo dire: perché nel nuovo mondo, digitale e connesso, siamo follower, oppure, in italiano, inseguitori. Abbiamo il futuro davanti e non lo raggiungiamo mai. Ma questo Draghi lo sa bene. Dobbiamo tornare leader, o comunque vogliate dirlo in italiano (non “capi” per favore). Dobbiamo farlo “a tutti i costi” (o “whatever it takes”, ma questa è una citazione, in inglese ci sta).
Perché usiamo tutte queste parole inglesi e continueremo a farlo - la Repubblica