Il dramma Felino, Fughe e Vita di un Celestino, che debutta a fine mese, chiude la mia "Trilogia dei Celestini", dopo L'infanzia negata e La Mostra Parlante.
Tento con il dramma l'aspetto più delicato, intimo e innominabile, il tabu, non solo perché Padre Leonardo, coprotagonista, è considerato ancora oggi "santo", tant'è che ancora ex-celestini mi intimano di non parlarne male, (perché parlare male di Padre Leonardo è come parlar male del proprio padre; la mamma invece all'Istituto era Maria, continuamente invocata), ma perché nel dramma di Felino è l'animo del bambino che parla e non solo in quanto celestino.
Cosa dice? Dice una cosa orrenda: che i bambini non sono amati. E qualche volta non amati dagli stessi genitori.
Il bambino, che non ha diritti, la cui infanzia viene appunto negata, la cui anima è compressa, per sanare le sue ferite, la sua piccola vita senza amore, non ha altra scelta che la fuga, che nel dramma si compie in modo del tutto particolare.
Si ha il sospetto che Felino accusi Padre Leonardo per non accusare i genitori. (Come si fa infatti ad accusare i genitori che non ci hanno amato?).
E che Padre Leonardo si senta colpevole, attraverso Felino, di aver finto e spacciato un sentimento di benevolenza che non ha mai provato. Un bene della mente, razionale, costruito, pianificato (in questo caso dalla religione), ma non dell'anima, col cuore. E che l'esasperato esercizio della preghiera non sia stato che un tentativo di camuffare la finzione d'amore. Il vuoto dei sentimenti.
L'Istituto fondato da Padre Leonardo non era propriamente un orfanotrofio, ma un rifugio. E quindi, com'è noto, vi si trovavano non solo bambini maschi orfani, "raccattati" (sic!) dal cappuccino in vario modo soprattutto al Sud, ma anche portati lì da genitori oppressi dalla miseria e dal bisogno, magari di andare a lavorare all'estero.
I bambini, che non servivano più come forza lavoro all'interno delle famiglie contadine che lasciavano i campi, quando in "sovrannumero" possibilmente venivano abbandonati. O dalle ragazze-madri, per evitare il disonore, la gogna, l'onta, la solitudine, il dolore dell'abbandono da parte del padre del bambino.
Di questi genitori non ho mai veramente parlato. Per rispetto, innanzi tutto. E anche perché i casi e le necessità che li condussero a Prato furono diversi e vari, ed è difficile riportare tutto a un discorso comune. Andrebbe visto caso per caso. E non per giudicare, ma per capire.
Dico solo che per alcuni di cui ho conosciuto da vicino la vicenda nutro il sospetto che non fossero solo, come mi è stato raccontato da tutti o quasi gli ex-celestini che ho incontrato, le difficoltà economiche o familiari a costringere certi genitori a lasciare i bambini in balia di finti frati e monache, il cui metodo educativo preferito era il "bacchiolo"...
Ma chi verrà a vedere il dramma alla Baracca, capirà meglio quello che voglio dire senza fraintendimenti.
Un bambino picchiato è un bambino rovinato.
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