Può accadere che le idee nelle quali crediamo, diventino il nostro carnefice?
Una domanda
all’apparenza paradossale, ma che può diventare una tragica realtà, come
accaduto nell’epoca delle ideologie totalitarie novecentesche.
Ripercorrendo la
vicenda umana e politica dell’operaio pratese Cafiero Lucchesi, la drammaturga
e regista Maila Ermini, fa luce su una pagina, a lungo rimasta oscura, del
comunismo sovietico e italiano.
Cafiero Lucchesi, vita e morte fra Mussolini
e Stalin, composto dall’autrice su documenti storici ai quali ha aggiunta
una libera interpretazione drammaturgia, narra l’intensa e toccante tragedia di
un operaio comunista, la cui fede politica non gli aveva accecata la coscienza
di uomo; nato e cresciuto in una famiglia imbevuta di anarchia e socialismo
romantico della prima ora, - battezzato Cafiero dal cognome del Marchese
pugliese Carlo Cafiero, esponente dell’ala socialista radicale della fine
dell’Ottocento -, mal sopporta l’avvento al potere del regime fascista e della
sua violenza squadrista.
Dopo una lunga serie di provocazioni e scontri verbali
con Guglielmo Florio, esponente fascista della prima ora, Cafiero lo uccide in
duello nel 1922, pochissimo tempo dopo l’ascesa al potere del PNF. Dopo
l’omicidio, si rifugia a Trieste, da dove, con l’aiuto di altri comunisti,
fugge in Unione Sovietica, dove pensa di rifarsi una vita.
A Mosca entra in
contatto con la comunità italiana, composta da fuoriusciti come lui, ma ben
presto, nonostante si sia sposato e abbia trovato lavoro in una fabbrica
tessile, si accorge che il comunismo, dal 1924, con Stalin ai vertici del PCUS,
si sta facendo sempre più oppressivo. Cafiero non si sente quindi libero, e
come lui altri compagni italiani; la comunità dei nostri connazionali, come
altre, finisce nel mirino dell’NKVD e del KGB coadiuvato dai suoi informatori
esterni; Cafiero è spiato persino dalla moglie, e in ultimo colloquio con un
connazionale, esprime tutti i suoi dubbi su Stalin, accusandolo di aver
rinnegato il comunismo e di essere un sanguinario dittatore.
Non pochi dubbi
vengono espressi anche su Togliatti e i vertici del PCI, che ben conoscevano la
sorte di tanti italiani spiati e arrestati da Stalin, ma che preferirono però
disinteressarsi delle loro sorti. Impossibilitato però a rientrare in Italia,
vista la condanna all’ergastolo che pende su di lui, rimane a Mosca, mentre il
compagno rientra in Italia.
Arrestato dal
KGB, con l’accusa di essere un controrivoluzionario e di aver calunniato
Stalin, Cafiero subisce l’umiliazione del carcere delle torture cui lo
sottopongono i suoi aguzzini. Fra le scene più intense, c’è appunto la
prigionia, durante la quale si trova contatto con altri italiani in carcere con
la sua stessa accusa, un pope e un delinquente comune, questi ultimi entrambi
russi. Fra la nostalgia dell’Italia, e la disillusione verso l’URSS, le ore
trascorrono lente e dolorose, in mezzo a un’umanità segnata dalla violenza,
dallo spionaggio e dal sordo desiderio di salvare la pelle anche mandando in
rovina altri esseri umani.
Durante gli interrogatori, Cafiero si proclama vero
comunista, smentisce le accuse, ma non rinuncia ad accusare Stalin,
scontrandosi però con la cecità del KGB. Proprio una poesia antistalinista, Il montanaro del Cremino,
scritta dall’intellettuale dissidente Osip Mandelstam e imparata a memoria, costituirà
la prova del suo essere controrivoluzionario.
Cafiero subisce
l’epurazione, all’alba, in un bosco nei pressi di Mosca. Ignorerà la sua sorte
sino all’ultimo, e morirà da uomo libero.
La pièce è una dura accusa contro i
totalitarismi, sia di destra che di sinistra, ma fa luce anche sull’ambiguo
atteggiamento tenuto da Palmiro Togliatti (alias Ercole Ercoli), e gli altri
alti esponenti del PCI in esilio in Unione Sovietica, che per non inimicarsi
Stalin preferirono ignorare la sorte di centinaia di connazionali ingiustamente
accusati di deviazionismo, e condannati a morte o ai campi di lavoro. Una
pagina di storia italiana sin qui tenuta nascosta dalla storiografia ufficiale
e dalla volontà politica, ma che ha visto spargere sangue innocente.
Costruito come
una sorta di film, lo spettacolo si offre al pubblico con un montaggio scenico
che ricorda il free-cinema di Pressburger, mutuato dal teatro, il cui lento
scorrimento poneva l’accento sulla gestualità e l’espressività degli attori.
Per analogia tematica, non è difficile accostare questa pièce alla pellicola I Compagni, girata nel 1961
da Mario Monicelli, con fra gli altri, Bernard Blier, Renato Salvatori e un
superbo Marcello Mastroianni.
Non meno intensa, ieri sera, la prova offerta da Gianfelice D’Accolti in veste di protagonista, che ha saputo dare vita non al personaggio ma all’uomo Lucchesi, con una tensione drammaturgica capace di comunicare al pubblico tutta l’intensità delle sue convinzioni politiche e umane, nonché la sua delusione nei confronti di un’ideologia ormai degenerata in dittatura, e dalla quale si sente tradito.
Non meno intensa, ieri sera, la prova offerta da Gianfelice D’Accolti in veste di protagonista, che ha saputo dare vita non al personaggio ma all’uomo Lucchesi, con una tensione drammaturgica capace di comunicare al pubblico tutta l’intensità delle sue convinzioni politiche e umane, nonché la sua delusione nei confronti di un’ideologia ormai degenerata in dittatura, e dalla quale si sente tradito.
Maila Ermini, da
parte sua, si “moltiplica” in una serie di personaggi che ruotano attorno a
Cafiero, dalla fidanzata Giulia, al padre, al fascista Florio, all’agente del
KGB che lo condannò a morte, interpretazioni che ci danno un’idea della
poliedricità espressiva di Ermini.
L’allestimento,
per il quale è stato rivoluzionato l’intero spazio del teatro, proietta il
pubblico direttamente nel dramma, annullando la tradizionale distanza fra
platea e palcoscenico; la scena, che spesso viene costruita sotto gli occhi
degli spettatori, ci offre un esempio di commedia dell’arte alla vecchia
maniera. Importante nota di cronaca: fra il pubblico era presente Cafiero
Lucchesi junior, nipote del protagonista.
Con
quest’interessante e ben costruito spettacolo, celebrato da cinque minuti di
applausi finali, Maila Ermini ci regala un altro esempio di alto teatro civile,
dove l’arte si incontra con la memoria che indaga le incongruenze e le malvagità
del sistema politico; un’occasione per riflettere anche sulla nostra epoca, non
certo immune da contraddizioni.