Il Festival della Canzone italiana, detto di Sanremo, è sempre
stato espressione di intrattenimento reazionario della classe dominante.
Nessuna novità.
Sarebbe facile mostrare la banalità delle canzoni
vincitrici, e rivelarle nella loro insipienza o furbizia attraverso una
semplice analisi strutturale. Banalità musicale e semantica, oltre che di forma
poetica, o, nel migliore dei casi, 'contenutismo' rozzo e vuoto come nel caso
della canzone vincitrice , dove i presunti contenuti 'alti' (il riferimento a
Morris, per esempio, o la fagocitazione dell'uomo nel web; in sostanza,
nonostante la tecnologia l'uomo resta una scimmia), sono annullati dal mezzo
che li trasmette e dalla banalissima musica pop.
Non emoziona nemmeno la tanto lodata canzone di Amara cantata da
Fiorella Mannoia, "Che tu sia benedetta", un coacervo di frasi
fatte e scontate, regressive e dolciastre, come si addice a una vera
canzone finalista di Sanremo, che subito qualche rappresentante del
Vaticano si è affrettato a benedire come inno alla 'vita'.
Una volta si sarebbe definita una canzone 'democristiana'.
Con il Festival di Sanremo l''industria culturale fa quello che
vuole, e accade per altri premi, di letteratura per esempio, e lancia come
prodotti di valore canzoni in realtà bruttine.
Piuttosto mi preme però far notare come il Festival di Sanremo e
tutto il commentume dei giornali (peraltro ho letto che la canzone vincitrice
ha fatto scatenare in un ballo scimmiesco tutta la sala stampa...complimenti),
completino la sepoltura di ogni altra possibilità
di espressione canora. Sì, ci sono il Premio Tenco o il Premio De André,
ma il 'popolino' non segue quelle manifestazioni, non commenta sui social quelle canzoni. Che poi,
fatte salve alcune eccezioni, non sono molto diverse da quelle che proprina Sanremo.
Ormai il Festival è 'nazionalpopolare' nel senso
opposto con cui coniò il termine Gramsci (il popolo che dovrebbe esprime i valori più
significativi e duraturi di una nazione), o non solo più con l'accezione
dell'appiattimento e superficialità del gusto, ma è 'nazionalpopolare' in
quanto è avvenuto il 'dominio-sul-popolare" : la classe dominante
impone definitivamente ormai il gusto al popolo, e il popolo lo segue e lo
consuma, amplificandone l'effetto sul web, senza produrre più nulla di
proprio.
Brutalmente: tu, Festival, mi dài la canzone da cantare; io non
solo la compro e la canto (come avveniva fino a poco tempo fa), ma la propago,
con la mia azione sul social, come un involontario agente
commerciale. E tutto gratis, e tutto a favore dell'oscuro (?) committente.
Nessuno più si immagina o canta altre canzoni che quelle propinate
dal Festival di questo santo, che in realtà era San Romolo (no, tanto per dire,
eh), ed è defunta ogni seria alternativa al dominio
culturale ed economico.
La 'comunicatività' ha vinto completamente sulla 'espressività'.
Il senso dei sintagmi 'musica popolare' o 'canzone popolare', 'ricerca
musicale', 'ricerca poetica', 'critica militante', 'recensione
critica' eccetera, appartengono ormai definitivamente ai manuali di
musicologia e si studiano nelle università o nei conservatori. D'altronde da
diversi anni è stato distrutto l'humus che aveva fatto sorgere le cosiddette
diversità. (Perché è vero che la musica o canzone popolare era spesso ripetitiva e semplificata, ma era comunque autentica, non artefatta e studiata per il suo commercio eccetera).
La canzone è solo 'arte' monopolizzata della e dalla classe
dominante e dei suoi commerci, affari e intrallazzi, come accade per altre
espressioni artistiche, e gli artisti si lacerano le vesti solo per
conformarvisi e salire sui palchi dell'Ariston e diventare famosi. In quanto il fine dell'artista è la fama (non la gloria, come recita la canzone vincitrice, fama e gloria sono ben distinte!), l'artista è diventato puro strumento, ma non dell'arte, burattino.
Al momento nessuna diversità o eccezione è possibile. Il popolo è muto.
(P.S. I due video: il primo è la versione italiana di "Gracias a la vida" della cantautrce cilena Violeta Parra cantata da Gabriella Ferri; il secondo è una canzone di Herbert Pagani, una riflessione sul mestiere di cantante e un ricordo di Luigi Tenco).
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