Il prof. Centauro, docente di Restauro Architettonico presso l'Università di Firenze, che ha scritto studi importanti al Castello federiciano di Prato (1), era presente alla prima di Io e Federico (Dialogo con l'imperatore), e ha dedicato questa sua recensione sul dramma.
Lo ringrazio pubblicamente.
"Io e Federico. Dialogo con
l’Imperatore
E’
successo a La Baracca. Un grande Federico II, tutto ardore e incrollabile spirito
si è materializzato sul palco evocato dall’autrice, genialmente camuffata nelle
vesti di Arlecchino, quale moderno buffone di corte in grado di solleticare,
dopo 800 anni, il ritorno dello “stupor mundi” a misurarsi con il futuro.
Senza
corte, senza banchetti e, soprattutto, senza dame accondiscendenti,
l’Imperatore non si è tuttavia negato o tirato indietro nell’incalzare delle
provocazioni sottili dell’autrice, dimostrando tutta la sua inarrivabile
personalità e un incommensurabile carisma anche al cospetto di un pubblico lasciato
a bocca aperta, coinvolto come non mai nella pièce. Originalità, spavalderia,
irriverenza per un poco politicamente corretto personaggio hanno fatto il
resto. Tutti ipnotizzati dallo sguardo, dai gesti, dalla mimica incisiva e
tagliente dell’imperatore che arguto, astuto, sempre profondamente umano come
lo può essere un re senza paure. Le sue parole si sono manifestate con una forza
d’urto senza pari lasciando tutti storditi di cotanta eloquenza. L’abilità dell’autrice
/ conduttrice della scena ha dipanato i nodi più tosti, abbattendo pian piano la
riottosità del personaggio, sospettoso per indole e regalità, toccandone i
tasti giusti per esaltare una sensibilità mai doma, cosicché l’istinto felino
del Re (hic sunt leones) è entrato prepotentemente e con grande lucidità sui
temi a lui cari, da noi, poveri e meschini ometti di oggi, non meno sentiti del potere politico, dello jus discrezionale “a tempo”, brandendo la
spada della ragione di un’illuminata ragion di stato opposta al sotterfugio,
alla manipolazione ideologica, alla dabbenaggine. Si è fatto storia, geografia
e filosofia a La Baracca attraverso una mirabile narrazione e una duplice
stupefacente interpretazione degli ideatori ed artefici della messa in scena.
Tangibilmente reale il contesto, che ha reso possibile svelare la realtà velata
dalla damnatio memoriae dell’uomo Federico e del grande politico della nobile
casata Hohenstaufen, tanto da far apparire miserevole il nostro quotidiano
speso o per meglio dire sospeso all’ombra di una democrazia falsata, quanto
goffa e volatile come un qualsiasi derivato finanziario. Incalzato da Arlecchino,
l’imperatore dichiara senza peli sulla lingua di avere apprezzato i giullari
del libero pensiero, non senza però averli dopo la recita giustiziati per lesa
maestà, di aver altresì rigettato come inutili omuncoli i leccapiedi di corte,
sopravvissuti nella vana gloria di contare qualcosa ma, appunto per questo,
lasciati campare. Se non fosse stato per il veleno che l’ha ucciso avremmo
avuto ancora oggi un Federico II, magari in grado di elevare Prato, con il suo
straordinario castello, al rango di capitale del nord Italia con buona pace
della città del Giglio e della Roma papalina … troppo presto sei uscito di
scena, caro Federico, anche se eri un tipo da evitare, pur tuttavia da ammirare per quell’incrollabile
coraggio “da falconiere” e per il sogno di arte, poesia e ingegno che ha saputo
coltivare e senza tentennamenti lasciarci in eredità.
Alla
fine (perché tutto ha una fine) del breve sogno coltivato al tuo fianco per un
sera ancora, abbiamo conosciuto meglio le verità del nostro passato che troppo
assomigliano a quelle nascoste di oggi, sentendo intimamente una pulsione diversa
a vivere la nostra esistenza perché la vita può essere vissuta solo coltivando
un sogno, come tu hai saputo fare, battendosi perché infine questo possa
realizzarsi".
Giuseppe
Centauro
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