Nel processo massmediatico che coinvolge tutte le arti, l'autore è un poveraccio.
In particolar modo nel teatro.
Nella "Danza di morte" di Strindberg (tradotta con sfumatura medioevale, "Danza macabra", perché la parola morte in sostanza allontana lo spettatore, mentre il macabro ha comunque in sé ancora qualcosa del riso, il grottesco) e che vedremo al Metastasio e in giro per l'Italia con la regia di Ronconi, l'autore, lo Strindberg, nei resoconti dei giornali e nell' 'onlaine', scompare.
Si capisce che coloro che ne scrivono, non lo hanno letto; si capisce che Ronconi, gli attori e le attrici, sono più importanti del drammaturgo, che ormai avendo fatto la sua danza di morte diversi anni fa, non è più utilizzabile per far cassa o far pubblicità.
Il grande pubblico non sa nulla di Strindberg, di dov'era, quando è vissuto, di quest'opera, che cosa voleva dire: vuole il prodotto attraente e al solito confezionato con nomi alla moda, altrimenti non si muove; vuole il mito. E gli operatori del sistema eseguono.
Con tutto il rispetto del regista - Luca Ronconi però alla presentazione a Prato, dove è stato nominato cittadino onorario, non c'era- e per i grandi attori (la Adriana Asti...), tuttavia il povero autore è rimasto sepolto e, in fondo, anche l'opera stessa.
Ma il regista e l'attore sono strumenti, interpreti, mezzi del senso; e ancor più la messa in scena: e invece, in una confusione totale, da troppo tempo ingombrano, soffocano, rabbuiano, perché sono diventati il fine.
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