Nel nome di Dio e del quattrino
Il mercante di Prato, commedia
impossibile con Francesco di Marco Datini, scritto interpretato diretto da
Maila Ermini con Gianfelice d’Accolti nei panni di Francesco di Marco, è una
meraviglia. Alla chiusura del sipario della prima, questo è stato il pensiero da
tutti condiviso in sala. Sarà l’atmosfera intimissima che avvolge il Teatro La
Baracca, sarà la suggestione della messa in scena, dove il pubblico è come
ospitato nelle stanze di studio e residenza del protagonista, ma quello che
passa dalla mente ai assiste è uno spettacolo autentico, dove il tempo lascia
il posto allo spazio e lo spazio è tangibile come un proscenio reale. Due atti
e cinque diverse “scene” (tante ne ho contate) che trasportano la vicenda del
mercante pratese, primo vero imprenditore dell’età moderna (una sorta di “protocapitalista”,
come ha dichiarato l’autrice a fine spettacolo) pur storicamente collocato tra
la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400. La scena di esordio rappresenta l’immaginario
ed evocativo incontro tra l’autrice e il personaggio; la seconda vive in una
confessione fra sacro e profano dove l’affabulatrice personifica l’angelo che
avrebbe dovuto purificare i peccati dell’impenitente, mosso da improbabili pie
virtù; la terza si consuma nel sonno riparatore con le incombenti visioni del
mercante, un pulcinella nel sonnabulismo che restituisce mirabilmente le paure
e gli incubi più terribili nei movimenti scomposti del burattino; la quarta
irrompe con la figura del terribile mongolo Tamerlano, restituito in scena con
sagacia e sarcastica invenzione dalle mutate sembianze dell’affabulatrice; la
quinta nell’incontro del mercante con la morte con la quale non si può
trattare, neppure con la lettera di cambio per ottenere inediti ei straordinari
maneggi post mortem (un quadro scenico geniale, “fuori del comune” e certamente
risolutivo per comprendere la vera e indissolubile personalità del mercante
pratese (un self made man ante
litteram).
Come altre volte, la piece
teatrale di Maila che apre la scena su personaggi pratesi, documentandone in
modo filologico le vicende rendendone pienamente credibili gli aspetti
esistenziali più reconditi assume i connotati dell’universalità per i temi
trattati e della contemporaneità per i possibili risvolti con il vissuto
contemporaneo. Storie di uomini e di donne che incarnano altrettante tipologie
che molto assomigliano alle persone e alle situazioni che misuriamo nel
quotidiano. Come Plauto prima e Moliere dopo dipingono la figura dell’avaro come
un archetipo, Francesco di Marco, come Arpagone, esce dalla storia per
raccontarci le umane debolezze e le fobie, vizi e virtù che attanagliano, oggi
forse più di ieri, l’uomo. La
superba interpretazione di Gianfelice restituisce con ironia e incommensurabile
espressività il quadro che scolpisce in modo memorabile il personaggio creato
da Maila, affabulatrice dell’impossibile incontro, ma anche delicata narratrice
nelle vesti di Margherita, moglie “coatta” di un carismatico Datini.
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