Finora il Museo Pecci che, ci informano, diventerà Fondazione, è stato il grande di nulla. Ora lo hanno ampliato, e sono pronti a dargli altri soldi, e altri soldi ancora. La Regione diventa socia.
Ma il Museo Pecci, al di là di tutti i progetti, è lontano dalla città di Prato, per non dire dalla Regione, che non lo vive emotivamente.
Prato non è Bilbao. Il Pecci non è il Museo Guggenheim. Nemmeno nell'essenza operaista le due città sono uguali. Bilbao è davvero un'altra storia: essa, presenza e simbolo dell'opposizione etno-linguistica e politica in terra di Spagna, ha trovato riscatto in un museo, lo ha accolto come un liberatore.
Prato è città conforme, sempre legata alla tradizione, a Firenze e poi a Roma. Alle istituzioni.
Prato è città di immigrazione, non omogenea, immigrazione interessata e sfruttatrice, come la sua essenza industriale che l'ha chiamata a sé appunto per sfruttarla. Brutalmente.
La cultura qui, come in tutta la Toscana, è espressione di dominio, di potere, ogni alterità è stata ed è cancellata. Se va bene, si coltivano soltanto gli artisti falsamente o blandamente alternativi, che di alternativo hanno solo la scorza, la cialtroneria, l'artista del vin-bicchiere o del cicchino. Quelli non fanno paura.
Io ho vissuto un mese a Bilbao, prima che il Guggenheim fosse costruito. La città era brutta, triste, oppressa; scritte di ribellione e rivolta ovunque; gli artisti si incontravano per strada, scontrosi e affamati. Vi si soffocava.
Là la Fondazione Guggenheim ha trovato l'humus adatto, si è sposata, in qualche modo, con il basso. Con la volontà del riscatto di una città, di una regione.
Qui, a Prato, nessuna necessità dal basso è lasciata vivere, e quindi non c'è nessun incontro con quell'alto che vive solo di sé e che, nonostante i soldi di cui si nutre, i giochi di potere e le nomine che lo coronano, le pubblicità o i lustrini del momento, le previsioni dell'indotto eccetera; insomma se non si verifica non so come un'altra storia, il destino del nuovo Pecci non sarà diverso dal vecchio.
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