giovedì 2 aprile 2015

“Lo Spettacolo della Città … un teatro in movimento” di Giuseppe Alberto Centauro





Lo Spettacolo della Città … un teatro in movimento”

1 APRILE 2015 – Dedicato a mio padre Gabriele (20 marzo 1916 - 1 aprile 1963)

Parte prima
Il 29 marzo 2015 resterà di certo una data storica per il teatro di Prato, con l’esordio di un nuovo, originalissimo, format di intrattenimento. Infatti in questa nuova produzione del “Teatro La Baracca” sono state presentate molte novità, per certi versi “rivoluzionarie”, soprattutto assai convincenti nella formula, nell’esclusiva (per il momento) offerta ad un “pubblico di passeggeri” per “Lo Spettacolo della Città” … teatro in movimento.
Idea pazzesca, eppure straordinariamente efficace, quella di proporre una performance teatrale in autobus, itinerante con fermate e ripartenze, con scese e risalite, con soste a motore spento e narrazioni viaggianti, toccando luoghi e storie del territorio attraversato, completato dal dibattito a termine dello spettacolo.
Una proposta quella di Maila Ermini di pura ispirazione lorchiana (in omaggio al “mitico” Teatro Universitario La Barraca del quale Federico Garcìa Lorca fu artefice e indimenticato direttore).
Le geniali intuizioni e scansioni teatrali di Maila e la bravura di Gianfelice D’Accolti hanno fatto vivere in modo vibrante nelle tre ore di rappresentazione questo teatro itinerante, letteralmente bevuta dagli spettatori/ viaggiatori in una sorta di quarta dimensione, sospesi dentro il mutare del paesaggio urbano di luoghi storici e “non luoghi” contemporanei a comporre la cifra scenica.
Maila e Gianfelice, attori e registi insieme, hanno condotto all’unisono per noi presenti uno spettacolo nello spettacolo. Mentre Maila apparecchiava la storia, Gianfelice recitava, e viceversa. Novelle, racconti, ricordi, ma anche annotazioni puntuali sul passato, sul presente e sul futuro della città, a testimoniare oltre l’impegno civico di un messaggio profuso con misura e piacevolezza. Entrambi hanno restituito la magia del teatro con l’incanto di gesti e parole, scorrendo su e giù per il corridoio dell’autobus, facendo toccare con mano a tutti le personalizzate testimoniare di quest’inedita drammaturgia periurbana, ora sussurrate ora cantate. Pareva quasi che “La Baracca”, in quanto anch’essa luogo fisico, si fosse smaterializzata fuori da quel di Casale, diversamente oggettivata per aree, punti ed ambienti tra loro differenziati lungo un articolato percorso anulare intorno al centro antico della città, ruotando come la Terra intorno al Sole.
Un teatro itinerante che definire sperimentale pare persino riduttivo, non tutto consumato sulle ruote di un bus, mirabilmente “contestualizzato”, concreto, mai astratto o inutilmente “concettuale”. Racconto perdurante che ha avuto il pregio di stupire, mai banalizzare, come le singole trovate approntate dalla musa ideatrice che non finisce mai di sorprenderti nel tirar fuori dal cilindro di un’inesauribile vena creativa e poetica, una dietro l’altra, l’ennesima “prova d’autore”.
Ribaltando un concetto quasi archetipo della novità della messa in scena, ovvero quello di trasformare in architettura scenica ogni qualsivoglia luogo per farne occasione di drammaturgia o di spassoso evento di strada, il “Teatro La Baracca” si è davvero messo alla prova scegliendo il movimento, l’avanzamento,  moving up direbbero gli anglosassoni, opzione non facile e assai rischiosa, cercando e frugando nei meandri reconditi della città metropolitana una dimensione diffusa, talvolta dispersa, forse irrecuperabile, rendendo persino bello, quantomeno interessante il trash urbano, in quella che Maila ha definito “l’estetica del brutto”, si alternano quartieri dormitorio dove prima erano i prati, spazi socialmente alienanti al posto dell’identità del primitivo tòpos. Certo pensando ad un’identità forse perduta di certi spazi urbani, è rimasto evidente il contrasto con lo strappo dell’oggi, ma anche grazie alle espressioni calibrate e sensibili della narrazione, il sapore piacevole delle parole resta a suscitare non tanto il senso di un lontano e nostalgico dèjà vu quanto piuttosto la rigenerazione di uno stato d’animo sopito, latente in ognuno di noi nei confronti del ricordo del tempo che fu, realizzando in una sfera ancora ben percepita nella memoria di ciascuno, il vago rimembrare di un’esperienza veramente vissuta che è stato emozionate far tornare alla mente e nel cuore.

Parte seconda
L’autobus corre coi racconti nello spazio e nel tempo, come nel Ritorno al futuro, senza però avere possibilità alcuna di cambiare le cose, di recuperare le occasioni perse. Attraversiamo, con una consapevolezza critica diversa, le Ville storiche del contado pratese (Capezzana, San Paolo, Galciana, come fossero luoghi ripescati da un immaginario collettivo, monumenti della nostra cultura materiale e della storia popolare, oggi separati tra loro da tangenziali e oscure barriere di cemento. Poi, ancora, quell’incalzare di immagini contrappuntate con garbato dialogo e sapiente regia, incredibilmente sincronica con lo scorrere visivo dei paesaggi che si mostrano dai finestrini tutt’intorno, ci lascia attoniti. La forza espressiva della narrazione, ben modulata, perfettamente connaturata ai tempi di percorrenza del mezzo di trasporto e a quelli canonici del palcoscenico, è di quelle cose che ti restano sulla pelle. Provare per credere! Ma non c’è tempo di sedimentare alcunché perché il viaggio continua, la corsa non si ferma in una comunicazione verbale mai paga, generosa di battute e di aneddoti nell’incedere incalzante di prosa, poesia, musica e canto.
Non si era mai visto niente del genere, vivere un autobus come “casa comune”, mobile ed aperta allo stesso tempo, in un’esperienza da condividere con altri occasionali passeggeri, ormai affratellati spettatori, coinvolti come te in tour dal timbro confidenziale, ricco di sorprese, suadente nei racconti letterari e negli amorevoli amarcord.
Il dialogo fra il malato e il sano di fronte al nuovo ospedale resterà una pagina speciale di questo testo, tanto esilarante quanto graffiante, costruito nella sagacia del “doppio senso” e dell’alternanza, trionfo di un’ironia frizzante che diviene, senza parere, scherno simpaticamente vociato nel refrain di una canzone. Resta la palese denuncia del malcostume che ci avvilisce giorno dopo giorno, senza tuttavia che di questo sgradevole pensiero si abbia in alcun modo fastidioso modo di intendere. Lo spettacolo ci dimostra infatti che non c’è affatto bisogno di polemizzare nell’esplicita saga dei personaggi dialoganti.
Dopo avere spento il motore, per gustare al meglio la scena, quasi fosse questo l’autobus di Harry Potter, si riparte per una nuova meta, in terra incognita.
Questa sequenza di emozioni si è ormai trasformata in un’occasione speciale di riscoperta della città nascosta nella periferia metropolitana, già scolpita nell’esperienza fuggevole del momento e pur ben percepibile oltre gli inevitabili colpi di scena e le suggestioni ambientali, godendo della realtà sommersa della pòlis odierna, il più delle volte invisibile nel quotidiano, di una Prato non evocata ma ben tangibile di fronte agli occhi. Una città, oggi sull’orlo di una crisi di nervi che, al contrario, ha sempre fatto del disincanto e della libertà di pensiero la sua più consona sintonia: gli attori ce lo dimostrano con rime, stornelli e sollazzi vari.  
L’acme del pathos si ha scendendo tutti a terra una prima volta, alla fermata posta nei pressi della rotatoria nord ovest della tangenziale, quella dove è stata collocata l’opera scultorea, in acciaio e vetro, di Italo Bolano, dedicata all’Imperatore Federico II, non certo un pratese doc ma pur sempre un suo lontano estimatore, un’opera visibile al tramonto, del tutto inosservata di giorno, come spesso accade per tanti luoghi “intermittenti” di questa città.
Qui, ben visibile, è un maestoso scenario che si apre ai nostri occhi, dimostrando una bellezza panoramica inaspettata in un luogo davvero sui generis.
Da un lato, rimirando l’inquietante spopolamento arboreo del poggiolo maestro del Monteferrato e il profilo occidentale della Calvana, brulla in testa, selvosa ai fianchi, si ha una sensazione opposta e convergente allo stesso tempo.
Dall’altro, la bella cartolina visiva che si apre a 180 gradi, a ventaglio, realizza un singolare “paesaggio dal basso,” una visione spettacolare che si fa commovente per la grandiosità, quasi sacralità, del profilo montuoso che suscita quella vista.
Qui, Gianfelice D’Accolti sublima le emozioni provate con gli occhi con una performance d’autore, con grande maestria e il piglio del maestro cantore, interpreta un monologo da brividi, tratto dai Maledetti Toscani di Curzio Malaparte, mettendo a nudo la pratesità e l’orgoglio del tempo che fu.  Gli spettatori viandanti, inconsapevoli pellegrini della storia, ascoltano in silenzio, anzi partecipano emotivamente all’unisono con l’attore che in ogni sussulto sembra parlare e muoversi sopra il colle di Spazzavento, dove Curzio riposa insieme alla sua immortale visione ed universale pensiero. Personalmente non ho mai provato un coinvolgimento così forte in pura simbiosi tra spazio fisico e spazio concettuale.
La bravura degli attori, la loro straordinaria professionalità ha di fatto continuato a trasformare il pur non agevole viaggio, tra rotatorie  assurde e una stordente viabilità urbana, in qualcosa di unico, che è trasposto nella curiosità inappagabile di “saperne ancora di più”, con tanta voglia di conoscere e fissare nella mente le storie e i racconti, come quelli fantastici e realistici tratti dall’ Antologia sul Bisenzio, la “spoonriver” pratese di Maila, vivendola come un’esperienza da non dimenticare che, mentre si ascolta, si ha paura di perdere, come se le parole si cancellassero nell’aria per una capacità mnemonica troppo labile.
Come se non bastasse, infatti, ben presto si accorgeranno gli spettatori di essere anch’essi protagonisti involontari di uno spettacolare happening che gli sbalzerà letteralmente fuori dai sedili per scendere tra la gente a mostrarsi in pubblico insieme agli artisti. Curiosa inversione delle parti con gli attori che divengono scudo, nell’ammiccante coraggio di una comune, contagiosa sfrontatezza da esibire in piazze e piazzole pronte ad accogliere l’insolita carovana. Luoghi e facce sempre variate, spazi sempre diversamente abitati, ora solitari, ora affollati, risolti in prosceni di inusitata incisività, pregnanti di significati e popolati di ricordi.
Il meglio si è avuto sulla ciclabile di un frequentatissimo viale Galilei, presso l’aulica fabbrica del notabile imprenditore, Brunetto Calamai, in questo posto è capitato quel che ho detto, tra la moltitudine di gente accorsa nel bel pomeriggio primaverile al mercato straordinario di domenica i viaggiatori agli occhi dei passanti si sono resi attori, involontari protagonisti della scena. “Turisti per caso”, mutuando il titolo di una nota trasmissione televisiva.
Ad ogni fermata e successiva risalita sull’autobus col “Teatro La Baracca” a fare da cicerone si è sempre e comunque avvertita nei 48 spettatori, una progressiva e contagiosa euforia, quasi fosse stata quella una gita tra vecchi amici, resa ancor più festosa per la piacevolezza della compagnia e lo spirito goliardico dei due capigruppo.

Parte terza
Inutile negare che l’aspettativa per questa strepitosa novità teatrale era stata, fin dall’esordio, grande, già al momento della prenotazione dei posti disponibili, niente però al confronto del “coup de théâtre" al quale avremmo assistito ad ogni sosta, ad ogni fermata dell’autobus.
Lo Spettacolo della Città” è un qualcosa che non si può descrivere, piuttosto va vissuto.
Per dirne una non si può rammentare per filo e per segno tutto quel che è successo, anche se tutto ciò è molto riduttivo e non conforme all’esperienza realmente vissuta perché il viaggio è stato intenso. Nella seconda parte del tour, non si può, ad esempio, non ricordare le odi alla natura recitate con il bus accostato sulle sponde del torrente Bardena: quella dedicata al picchio, simbolo del Centro di Scienze Naturali di Galceti; quella della scansonata favola di Trilussa con la morale del cane “bastardetto”. Poemetti contrapposti alla triste storia dell’anarchico regicida, Gaetano Bresci, sopra le limpide acque del torrente che scorre accanto al bus, scopriamo nel racconto snocciolato da Maila e Gianfelice di essere a ridosso dell’amena collinetta dove il Gaetano si esercitava al tiro con la pistola per non sbagliare quel triplice sparo che lo avrebbe dannato.
Bus stop in viale Marconi, all’ingresso dello spettrale parcheggio TIR, giustapposto all’area, oggi in sgombero, del campo nomadi, o meglio dei Rom, ancora carico di immondizia e cartacce svolazzanti tutt’intorno.  Questo è “il luogo non luogo” per antonomasia della città, posto alle porte di Prato in prossimità del suo principale accesso urbano. Un’immagine davvero stridente, da “terra dei fuochi”, che offende il senso comune del sentire e del vivere la natura che, a contrasto con la stesa di asfalto e cemento, appare assai luminosa sotto il verde argine erboso del Bisenzio, ancor più ingentilita dalla vista remota delle ondulate pendici di Poggio Castiglioni.
Questa fermata (non si scende) segna però il punto più alto dello sconforto per quanto è andato perduto nel fresco ricordo di quel che è accaduto con l’obliterazione perpetrata nella barbarie dell’ignoranza, non giustificabile ed insana, del grande insediamento etrusco, scoperto a fine del secolo scorso e seppellito agli inizi di questo per far posto allo scalo merci dell’interporto. Lo straordinario sito archeologico, posto giusto giusto al di là del fiume, in sponda destra è la peggiore vergogna di questa operosa città che certo non avrebbe meritato una vicenda così tanto infamante. La sofferenza che prova è stata acuita nella metafora poetica del racconto che Maila ha proposto, senza alcuna polemica o rabbiosa reazione, che evoca il fantasma di un’immaginaria donna etrusca, regina della grande domus ancor superstite dello scempio: qui per due volte nata e per due volte sepolta, prima dal limo e dalla fanghiglia dell’onda fluviale, poi dal tombale cemento di abnormi piazzali, capannoni e rugginosi binari. 
Quale differenza tra l’orgoglio pratese di ieri, nobilmente narrato da Malaparte, e la stupida cupidigia affaristica del pratese di oggigiorno, politicamente incapace di leggere nella propria storia, valori e sentimenti, e quanto semmai resta ancora di buono della cultura del nostro tempo!
Il lungo viaggio pomeridiano ormai avvia il suo percorso di rientro con l’amarezza addosso che alberga nei cuori dei viaggiatori, prendendo il posto del gusto dell’avventura …  ma il genio teatrale al pari del bus non si ferma, ed ancora una volta viene in soccorso delle menti ora afflitte. Infatti, dopo avere ripercorso la tragedia di un’occasione perduta, aver vissuto un novello “sacco” che squalifica e mortifica tutti coloro che sono stati in qualche modo partecipi di questa orribile vicenda, si riaffaccia la poesia, operando un nuovo miracolo attraverso la lettura dei componimenti lirici di Sem Benelli.
Siamo nel macrolotto industriale e alla vista delle fabbriche rivestite in mattoncini, come le villette della Pietà, si riassapora l’attenzione, anche architettonica, di una filantropia del lavoro, un’etica urbana che pure poco prima sembrava perduta. L’ode al tessitore di Sem Benelli ci ricorda un passato eroico del lavoro in fabbrica, dove i più umili protagonisti sono posti alla stregua degli eroi omerici, tanto il sacrificio, tanta la naturale e semplice bellezza di una vita vissuta nel rapporto autentico e genuino con la propria città.
Questo percorso intorno alla città può dunque completarsi serenamente e riaffermarsi nella corretta sintesi anche antropologica della messa in scena, senza eccessivi squilibri per il verismo mai dimenticato de “Lo Spettacolo della Città”, non prima tuttavia di recarsi con una vena giustamente sarcastica al “Parco Prato”, megastore della contemporaneità più consumistica, ma qui il discorso si farebbe lungo ben oltre i confini geografici del territorio perlustrato. Quasi un segno del destino, il grande centro commerciale si è posizionato in perfetta giustapposizione al Villaggio Gescal di Ludovico Quaroni, quartiere che fa parte della storia urbanistica del dopoguerra, quando l’idea del ghetto sociale non era stata messa alla prova e si sposava con l’idealità della “città giardino”, nel segno di una presupposta adesione del popolo al progetto astratto di un mondo asettico e autoreferenziale, non sussidiario al contesto urbano del centro storico. A quel tempo la stagione dei suicidi per depressione ambientale e dell’emarginazione non era stata ancora vissuta per poi assumere invece i connotati di un dramma “non falso” che sarà piuttosto ricorrente nei quartieri dormitori degli emarginati.
In questo luogo è successo un po’ quello che abbiamo toccato con mano, transitando per il “viale dei tralicci”, vera mostruosità infrastrutturale del territorio pratese, passata come modernizzazione, andando a prendere il posto dell’antica via Cava e dell’attigua via del Ferro che segnavano, con ben altre allusioni,  il confine tra il contado rurale e le aree verdi naturali delle zone umide della Piana a sud di Prato, dove oggi per rimediare ai disastri ambientali si devono scavare “spaventosi” bacini di compenso per le acque esondabili al fine di  ridurre il rischio idraulico e gli effetti della cementificazione selvaggia.
“Lo Spettacolo della Città” è da vivere dunque, a fine del viaggio, non come un evento temporaneo quanto piuttosto come una testimonianza della resilienza stessa della gente che, grazie al “Teatro La Baracca”, ha da ieri un motivo in più per comprendere, per mantenere alta l’attenzione, semmai discutere senza farsi distrarre dalle impietose falsità dell’informazione corrente, il tutto con grande leggerezza e poesia.

Giuseppe Alberto Centauro


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