Leònida Rèpaci ricorda che il 'grande amore di Gramsci era il teatro": a venticinque anni comincia a recensire, corrosivo, sull' «Avanti!».
Prendo due articoli del 1917, cento anni fa esatti, in cui lamenta i danni del monopolio teatrale. A Torino, dove abitava, molti teatri appartenevano ai fratelli Chiarella, che esercitavano appunto il loro strapotere sulla città, facendo girare "compagnie a contenuto leggero", abbassando in sostanza il 'livello estetico'. Erano anche gli anni in cui il cinema prendeva il proprio avvio, era muto, ma costituiva un avversario agguerritissimo del teatro.
Il 'trust', come Gramsci polemicamente lo chiama, oggi ha solo cambiato padrone, oggi si tratta di monopolio pubblico, ma il risultato asfissiante è lo stesso. Infatti i direttori dei teatri alla fine devono badare al risultato economico esattamente come un tempo i Chiarella; abbonamenti, biglietti venduti, gradimento, ma oggi in funzione della gestione-oppressione diretta dei partiti che gestiscono e manovrano a proprio piacimento e utilità, come e più di privati sebbene indossino il vestito pubblico. Ma questo il 'popolino' non lo sa (o non se ne cura); non sa (o non se ne cura) che il direttore artistico è solo espressione politica e d'interesse, e corre smanioso a vedere acriticamente quello che viene propinato e imbandito, con conseguente appiattimento e normalizzazione culturale.
La differenza sostanziale è che il teatro oggi ha perso il significato e l'importanza di un tempo, ed è stato reso inoffensivo come ormai tutte le espressioni artistiche 'fruite', (così l'arte figurativa, commercio, e la musica, tornato intrattenimento, 'bel sottofondo', come lamentava ai suoi tempi Kant, ma ora certa musica è soprattutto roba d'affaristi); mentre il cinema si è involuto in un'industria culturale con schemi fissi, e di contenuto e formali, attraverso cui, possibilmente, applicare il dominio.
Buona e tenace lettura; il 'post' è lungo.
Buona e tenace lettura; il 'post' è lungo.
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
L’industria teatrale
"Politeama Chiarella: spettacoli di varietà, Cuttica, Spadaro e compagni.
"Politeama Chiarella: spettacoli di varietà, Cuttica, Spadaro e compagni.
Teatro
Carignano: il miracolo vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco
tutti i luminari della scienza.
Teatro
Alfieri: 60a rappresentazione
della compagnia d’operette di Luigi Maresca. Operette, varietà, vaudevilles di
Carosio e di Cuneo, fenomeni viventi Fregoli, Petrolini, Cuttica, Spadaro e
Titina.
Torino è
diventata una fiera, Barnum è diventato il dio tutelare dell’attività estetica
e del gusto dei torinesi.
Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo spirito dell’accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú conveniente adibire i teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati, l’industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l’aggettivo «teatrale».
Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo spirito dell’accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú conveniente adibire i teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati, l’industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l’aggettivo «teatrale».
Fa maraviglia
una cosa soltanto: che l’autorità militare, cosí fiscale quando si tratta di
requisire le scuole o il Teatro del popolo di Corso Siccardi, o il teatro
Regio, dove non vanno e non possono andare che compagnie che veramente vogliono
offrire al pubblico spettacoli di teatro, utili per l’educazione estetica e che
rappresentano il soddisfacimento di una necessità buona, risparmino invece i
teatri gestiti dalla ditta Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina
caratteristica d’arte e servono allo sfruttamento delle velleità di
divertimento volgare.
Il trust teatrale
a Torino è andato un po’ troppo oltre nella sua abilità industriale, Torino è
completamente tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli
vi capitano due o tre delle maggiori compagnie drammatiche per una stagione
straordinaria. Torino dà molto pubblico agli spettacoli di varietà, non è mai
satura di ritrovi equivoci. L’industria teatrale è entrata in concorrenza con
il varietà, cerca di accaparrarsi la categoria piú redditizia di questo
pubblico. Persegue cosí il suo fine monopolistico. Le compagnie maggiori sono
riservate alla provincia, ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano
pagati meno, perché i teatri sono piú piccoli e gli incassi sono minori. Il
monopolio trionfa. I teatri delle grandi città, anche se adibiti a spettacoli
di ordine inferiore, rimangono redditizi, perché c’è tra i 500 mila cittadini
quel certo numero di individui che li frequenta lo stesso. Gli artisti di
varietà sono pagati meno, e il capitale si impingua. Nei piccoli centri, è
necessario il grande nome per attirare la folla; gli artisti sono pagati meno
perché la piazza è secondaria, e il capitale si impingua allo stesso modo. Le
grandi compagnie si dissolvono, gli attori sono costretti per vivere a
dedicarsi al cinematografo; l’industria teatrale, monopolizzata, non se ne
preoccupa; i suoi affari prosperano ugualmente per l’impossibilità della
concorrenza, per l’abbassamento del livello estetico che fa ricercare lo
spettacolo di Petrolini o di Cuttica, e non fa rimpiangere le interpretazioni
artistiche di Ermete Zacconi e di Emma Gramatica.
A Torino però
il trust ha
esagerato nella sua abilità industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia
del capitale monopolizzato si contrapponesse un’altra autocrazia. Quale ragione
superiore può ormai piú oltre far considerare intangibili i teatri della ditta
Chiarella, mentre i locali scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e
tangibilissimo è stato il Teatro Regio?
Petrolini,
Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro ambienti naturali. Quale superiore
ragione artistica deve piú oltre permettere che la città di Torino diventi un
feudo del varietà? È doloroso dover ammettere che in una grande città debba
essere ristabilito il buon costume da un provvedimento autoritario. Ma è
purtroppo cosí. Le esagerazioni del monopolio non possono che essere frenate
dai calmieri di Stato.
(28 aprile
1917)
L’industria teatrale
A Milano si sono radunati a convegno,
nei giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate all’industria
dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e d’operetta, e gli
scritturati. Il convegno era patrocinato dal presidente della Società degli
autori, per cercare di appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei proprietari di
teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo sprecato. Le questioni non
furono appianate, i proprietari non cedettero di una linea: ma il signor
Giovanni Chiarella continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei
capocomici italiani perché documentino il suo illuminato mecenatismo.
I capocomici domandavano il ritorno puro
e semplice alle condizioni contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione della
propina tre per cento sull’introito di ogni spettacolo, imposta dal trust a favore dell’agenzia
Paradossi; 2) abolizione delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti
vendibili nei teatri abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei
capocomici e dei proprietari di teatro, eliminandosi l’inconveniente che una
parte dell’introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3) ripartizione
proporzionale su ogni spettacolo dell’ammontare degli affitti annui per palchi
e barcacce, affitti che ora vanno a totale ed esclusivo beneficio dei
proprietari; 4) riscaldamento a carico dei proprietari di teatro; 5) tassa
serale a carico dei proprietari di teatro; 6) per le compagnie d’operetta le
spese di orchestra a carico dei proprietari di teatro.
I proprietari non accettarono nessuna di
queste proposte, sebbene fossero accompagnate da questi due compensi: 1)
estensione a tutti i teatri dell’aumento del 10 per cento sul prezzo dei
biglietti dei palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e
devoluzione dell’aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per compensarli
dell’aumentato prezzo del carbone e dell’aumentata tassa teatrale; 2) riduzione
del 5 per cento della percentuale sugli introiti serali devoluta finora ai
capocomici. I proprietari invece fecero delle controproposte che miravano a far
sorgere degli attriti fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il
convegno è servito a qualcosa, è perché ha determinato un avvicinamento tra le
tre categorie che sono direttamente danneggiate dal trust: gli autori, i
capocomici e gli scritturati. I capocomici hanno concesso agli scritturati un
nuovo contratto di locazione d’opera, contratto unico, paga annuale senza
stagioni morte.
Certo non basterà questo principio d’accordo
per scompaginare il trust e ovviare alla sua
azione, deleteria per l’arte, e strozzinesca in confronto di quelli che
lavorano. Il trust ha possibilità di
rivalsa, contro le quali solo lo Stato potrebbe intervenire. Esso può
boicottare subdolamente gli artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al
cinematografo, a Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni
Chiarella si è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi effetti
dell’industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose scrivono ora, dopo l’esperienza
del convegno di Milano, anche altri giornali. E usano precisamente quel
linguaggio, per il quale il Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare
affarismo. Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un
giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per l’industria propriamente
detta, è liberista e avversario dei monopoli per l’industria teatrale, l’unica
che studi e svisceri con criteri non amministrativi:
I proprietari di teatro sono riuniti in
consorzio su basi commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi
esclusivamente: dell’arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto questa
gente si trasformi in un’accolta di mecenati o di persone che si accorgano di
non speculare su delle scarpe, sarebbe ingenuità.
Il consorzio oltre aver determinato
anche nei teatri di provincia non consorziati aumento di prelevazioni, e aver
fatto salire il prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri interessi
spinto da necessità insite nella sua natura.
Esso infatti, smanioso di accaparrarsi
quanti piú teatri gli è possibile, è diventato e diventa proprietario di teatri
di secondo e terz’ordine, che non rendono niente, e che rimangono chiusi gran
parte dell’anno. E allora escogita quei mezzi balordi del cinematografo, dei
visionisti, degli spettacoli sportivi, dei vari Petrolini, in modo da
diminuirne anche la secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a
dei locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per nozze,
banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è precisamente un criterio da
caffettiere che ispira il consorzio, il quale è sempre in caccia del genere o
dell’individuo che piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi
qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi sulla moralità,
sul giuoco e su altre miserie. È facile intuire in quali condizioni si trova l’arte
drammatica alla mercé di costoro.
Tolte due o tre compagnie favorite,
perché attirano gente, le altre che pure l’attirerebbero se potessero recitare
durante le stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni possibilità di
far bene; e siccome raramente il valore commerciale coincide col valore
artistico, il consorzio favorisce il primo a tutto danno del secondo? Senza
contare poi che esso grava sui capocomici in modo da rendere loro difficile la
gestione della compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i piú
volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati da persone colte,
intellettuali e pronte a qualsiasi visione di bellezza.
(17 luglio 1917)
Antonio Gramsci
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