Il
turismo di oggi cancella la memoria, il ricordo dell'umanità passata. Quest'anno i toscani e non solo hanno
affollato l'Isola d'Elba in maniera massiccia, e quasi tutti, come ogni anno con
gli occhi ben chiusi. Almeno stando alle loro cronache estive! Ma la storia dell'Elba non è solo Napoleone né Etruschi
(e molti non conoscono nemmeno questo passato), come ben ricorda questa bella
recensione di "Cronache rivoluzionarie a Portoferraio" che traggo
dalla rivista online Carmilla e pubblico sotto. L'Elba è storia di estrazione mineraria, duro lavoro di operai nei secoli, lotte politiche, tutte buttate nel dimenticatoio.
Io ho un ricordo personale fortissimo, e che rievoco, en passant, nel mio spettacolo sui proverbi. Enzo Federici, marito di una cugina di mia
madre, anarchico livornese, aveva lavorato all'Ilva di Portoferraio (il nome dell'Ilva di
Taranto deriva da qui!), e ancora rammento, pur vagamente perché ero bimba come
lui diceva, delle discussioni politiche che nascevano sempre a tavola d'estate, quando
si mangiava a casa sua, che era una delle palafitte che gli anarchici, fra cui anche Enzo, avevano costruito fra la macchia e la riva del mare da Piombino a Follonica, e dove vivevano perché non avevano una casa! Erano davvero "poveri in canna!"
Le palafitte sono stata distrutte per far posto ai turisti, e quelle non travolte dalle ruspe sono state trasformate in bar o ristoranti.
Delle lotte dei minatori non rimane nulla, né a Rio Marina (Il Museo Minerario non racconta il dolore), né a Capoliveri, dove tutto è cancellato, e il borgo si presenta ameno e, come dicono
insulsamente i "maledetti toscani", bellino.
Una cronaca di lotta proletaria dall’isola del ferro
di Sandro Moiso
Alessandro
Pellagatta, Cronache rivoluzionarie a
Portoferraio. I comunisti internazionalisti e la lotta del proletariato elbano
contro lo smantellamento degli altiforni (1944-1951), Quaderni di
Pagine Marxiste, Milano 2020, pp. 96, 8 euro
Certo molti conoscono
la storia “antica” dello sfruttamento del ferro elbano sia da parte degli
Etruschi che dei Romani, ma nessuno (o quasi) ricorda un’epoca in cui la
presenza anarchica e comunista segnò le politiche e le iniziative dal basso di
una popolazione che per secoli ben poco ebbe a che fare con il mare e con il
turismo. Turismo, prima di élite (negli anni Sessanta e Settanta) e poi di
massa (a partire dagli anni Ottanta), che con il suo illusorio benessere ha
stravolto non solo il paesaggio ma anche il tessuto sociale (e politico) della
terza (per grandezza) delle isole mediterranee italiane.
Ricordare qui gli
episodi che caratterizzarono le lotte a cavallo tra XIX e XX secolo, in
particolare il lungo sciopero del 1911, oppure figure come quella di Pietro Gori
e, successivamente, dei numerosi antifascisti elbani, sarebbe troppo lungo.
Per questo motivo la
seconda edizione del testo di Pellagatta, riveduta e ampliata in maniera
significativa rispetto a quella del novembre 2005, è già di per sé utile al
fine di rammentare al lettore quelle vicende passate e i personaggi che ad esse
contribuirono.
Ma il testo, che si
dilunga particolarmente sul periodo 1945-1951, ha il suo punto di forza (e
forse di attualità) proprio nel raccontare le lotte condotte nel secondo dopoguerra
dal proletariato elbano per impedire la chiusura degli altiforni di
Portoferraio che avevano costituito, dalla loro apertura fino alle distruzioni
del secondo conflitto mondiale, una linea di produzione importante della
società ILVA, che prendeva il nome (lo ricordino ancor oggi gli operai
impegnati nelle lotte odierne negli stabilimenti della stessa società di
Taranto e di Genova) proprio da quello più antico dell’isola più grande
dell’arcipelago toscano.
“Dopo la fine del
primo conflitto mondiale il mancato adeguamento degli impianti rilevati dalla
società ILVA, le mutazioni della domanda interna, la crescente concorrenza di
altri stabilimenti e gli scontri al vertice della borghesia industriale
portarono a un declino lento ma costante degli altiforni di Portoferraio. I
pesanti bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale contribuirono a
rendere inutilizzabile il complesso industriale.
Nel 1945 l’attività
industriale a Portoferraio è praticamente ferma. Se inizialmente ciò è dovuto
principalmente agli effetti dei danneggiamenti bellici, questi poco a poco
finiscono per rappresentare di fatto un alibi teso a rafforzare una serie dis
celte politiche miranti allo smantellamento degli impianti siderurgici.”1
E’ proprio dalla
volontà di smantellare definitivamente gli impianti che prende avvio un ciclo
di lotte che, seppur sconfitte, ebbero almeno il merito di segnalare non solo
la protervia imprenditoriale, sorda a qualsiasi domanda proveniente da
maestranze già duramente provate dalla guerra e dalle politiche fasciste, ma
anche la fine di qualsiasi possibilità di fare affidamento su una risoluzione
governativa e parlamentare della crisi. Non solo, ma anche quello di far venire
pienamente alla luce la politica sostanzialmente collaborazionista del PCI
togliattiano e dei sindacati.
A svolgere la
funzione della voce fuori dal coro fu appunto la rappresentanza significativa
di militanti del Partito comunista internazionale, di tendenza bordighista, che
tenne alto il vessillo dell’iniziativa proletaria e rivoluzionaria nei
confronti dei padroni, dello Stato e dei suoi finti avversari democratici di
sinistra. Ed è questa la parte del libo che oggi, come non mai, può far
riflettere sulle voci disperse di una tradizione rivoluzionaria che sia il PCI
di Togliatti che la successiva sinistra extraparlamentare degli anni Settanta
contribuirono a rimuovere dall’orizzonte del discorso politico e
dell’iniziativa operaia in Italia.
Ma un altro discorso
che è sotteso a quello principale è quello di un conflitto imperialista che,
pur nelle ridotte dimensioni dell’isola, fu vissuto in tutte le sue
sfaccettatura più infernali per la popolazione civile. Dall’affondamento di un
traghetto di collegamento con l’isola ad opera di un sommergibile britannico,
ai bombardamenti, prima anglo-americani e poi tedeschi dopo l’8 settembre, su
Portoferraio e i suoi stabilimenti che causarono non solo la distruzione degli
altiforni ma anche di una parte significativa del porto e del centro storico della
‘capitale’ elbana, con centinaia di morti tra i civili. Non ultimi, infine i
morti, le violenze e gli stupri, che i si verificarono sull’isola dopo lo
sbarco delle truppe ‘liberatrici’ francesi.
Fu in questo contesto
di sofferenze che si sollevò la voce e la protesta dei lavoratori elbani e
delle loro famiglie. Inascoltate e sconfitte, grazie anche ad un apparato
politico e sindacale che già da tempo aveva scelto la via dell’unità e
dell’interesse nazionale rispetto a quello proletario che avrebbe invece dovuto
difendere. Unica voce diversa, appunto, quella di quei militanti che non
avevano tradito la tradizione rivoluzionaria di Livorno nel 1921 e che ancora
nei primi giorni dopo l’8 settembre avevano caratterizzato la stampa
distribuita lungo il litorale tirrenico toscano, caratterizzata dagli evviva
per il Pcd’I e Bordiga (volantini e fogli oggi conservati presso la Biblioteca
Franco Serantini di Pisa), provenienti dalla base di un Partito che ancora
doveva digerire la svolta di Salerno.
La vecchia Sinistra
Comunista parlerebbe ancora oggi delle “lezioni delle controrivoluzioni” da cui
apprendere gli insegnamenti per le lotte attuali e future. Basti appunto
pensare alle lotte odierne all’ILVA di Taranto e alle speranza riposte in un
suo salvataggio, riconversione o adeguamento alle norme sull’inquinamento
industriale. Autentiche fanfaluche con cui i governi, i partiti politici e i
sindacati asserviti continuano a riempire le orecchie e le teste degli operai
coinvolti.
Ma infine anche un
grido d’allarme per chi nella chiusura degli stabilimenti inquinanti crede di
vedere la via principale per la risoluzione del problema ambientale.
L’isola d’Elba è lì a
dimostrarlo, ancora oggi, con lo stravolgimento edilizio del suo panorama, con
l’inquinamento del suo mare a causa di scarichi fognari insufficienti e
sversamenti di navi e petroliere, con la velenosità dei fumi provenienti dalla
vicina Piombino (dove gli stabilimenti e gli altiforni furono spostati per poi
essere rivenduti in anni recenti a società di ogni nazionalità, risma e tipo di
disonestà imprenditoriale) e molti altri problemi che ancora tradiscono, se
analizzata da vicino e con più attenzione, la sua immagine da isola dei sogni.
Il testo di
Pellagatta, ben documentato e attento, ci è d’aiuto ancora una volta sulla
strada del disvelamento di un passato che, purtroppo, ancora non passa.
L’eterno presente di un modo di produzione che è già morto ma che ancora cerca
di riproporsi come unica soluzione possibile dei mali da esso stesso creati.
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