lunedì 28 settembre 2020

Recensione de "Il mondo senza donne" alla Baracca


Ricevo e pubblico questa approfondita e inaspettata analisi di testo e messa in scena de "Il mondo senza donne" di Virgilio Martini alla Baracca scritta dal Prof. Centauro, che ringrazio.

Due commenti in uno: 

"Il primo sull’opera letteraria dal sapore drammaturgico; il secondo sulla messa in scena a La Baracca".

Il  viaggio  antiutopistico di Virgilio Martini nell’odissea del genere umano raccontata da Maila Ermini

“Futuribile” è forse la  visionaria allusione di Virgilio Martini verso un mondo morente? “Realistica” è forse la consecutio generata da quel suo mondo “senza donne”?   Scrittore di fantascienza o piuttosto attento esploratore del genere umano è la cifra di quell’autore? Se così non fosse, la sua storia sarebbe davvero pura fantascienza. Ma allora ci dovremmo chiedere cosa rappresenti oggi per l’Umanità questa maledetta infezione Sars CoVid-2  che è nata dalle contraddizioni di una società globalizzata ed antagonista come già nel mondo descritto nel 1935 dall’autore. Preveggenza o che altro? Quando l‘effetto è uguale alla causa che l’ha prodotto c’è poco da aggiungere per un male che ci attanaglia e che la scienza non sa ancora decifrare.  Come all’esordio della pandemia che nel romanzo ha travolto il genere umano fino alla rinascita storpiata con l’ultimo ovulo fertile che l’immaginario letterario ha ben materializzato in un finale da “giallo cosmico”, siamo noi, a nostra volta a domandarci se siamo al principio della fine o all’inizio di un’evoluzione umana post coronavirus?  E’ dunque questo l’incipit di una nuova Era, di una favolistica  età post tecnologica? L’unica verità che appare certa nell’affannosa ricerca della sopravvivenza indicataci dall’autore è che niente cambierà; un karma per gli uomini di domani che, loro malgrado, rigenereranno in toto i peccati originali (non facendo tesoro una volta di più dei proprio errori). L’autore per dimostrare la metafora di un’Umanità ormai avulsa dal contesto,  resa progressivamente sterile per l’inevitabile impotenza del maschio a procreare senza femmine, si serve lucidamente di un’inoppugnabile analisi matematica, creando una specie di algoritmo letterario scandito dall’ossessivo ripetersi di numeri ricorrenti all’infinito. Niente di più, niente di meno di questo è la sua filosofia. Una risposta che lascerà ammutoliti i lettori sul divano di casa e annichiliti gli spettatori in sala, assistendo al racconto di Maila, inducendo comunque nelle due ricomposte modalità, alla riflessione.

Maila ha così colto il segno di questa spettacolare duplicità trasferendo l’opera in teatro.

In questo viaggio nell’ignoto, che non direi pessimista ma men che mai ottimista, l’ironia si mostra come l’arma vincente, l’antidoto, la nostra più fedele sorella, un’alleata per le persone di buon senso ed intelligenti, per gli animi sensibili, pur sofferenti di chi non vuole sprofondare nella depressione per l’altrui stupidità. Un percorso totalmente laico, ma non certo blasfemo, è quello delineato intorno al genere umano dal genio nascosto di Virgilio Martini, riconvertito magistralmente in un dramma teatrale.

Se questo, dunque, è quello che ci angoscia, Maila ha colto con sapienza lo spunto giusto, riproponendo filologicamente una “navigazione sui generis sul testo” alla scoperta di un autore sconosciuto ai più e, soprattutto, dell’antropologia sottintesa  in quelle pagine che gira  intorno all’intelletto umano per trarne un’opera teatrale sopraffina. Con  Maila fluttueremo in balia del maschio dominante, misogino oltre ogni limite come quel potere che solo può esercitare il culto egocentrico della personalità che si nutre della propria avidità sulla pelle di chi è debole o indifeso, fatto suddito di un re senza corona fino alla soglia della completa dissoluzione, etica/morale e fisica, del genere umano. Ma, come in un girone dantesco, il mondo non finisce qui, troppo facile sarebbe “terminare” così l’esistenza dell’Uomo sulla terra e ben poca cosa sarebbe quella rovina, la distruzione del genere umano, senza i posteri a raccontarla, senza un Omero a narrare ciò che è stato affinché si possa tornare a vivere nel mito o nel perpetrarsi mnemonico dell’ennesimo olocausto.  

Maila, attraverso il suo Virgilio, ci trasporta come Dante in una dimensione che, dal mero risvolto di fantasia, si concretizza nel reale quotidiano, descrivendo ab libitum, al pari dell’antica leggenda, il nuovo del domani che produrrà ancora novelli negazionisti e così via, in un processo senza fine, infinito come i numeri per l’appunto. Nel grottesco scenico, asciutto ed austero, si rivive quel “mondo senza donne” che dal testo di Virgilio Martini sembra amplificarsi nel racconto di Maila come una sorta di dannazione per un’umanità perennemente condannata dai suoi ripetuti misfatti.

        Quando epica e satira si confondono

L’afflato drammaturgico di Maila, prima di affondare il colpo, rende con grande acume omaggio allo scrittore dal quale ha tratto la sua commedia, riservandogli una presentazione assolutamente atipica e rischiosissima da mettere in scena, proponendo allo spettatore l’analisi introspettiva, bio-bibliografica dello stesso Virgilio Martini. Una lettura, lunga ed argomentata la sua, che supera i confini dello spazio-tempo del palcoscenico, quasi a compensare una volta per tutte l’oblio al quale è stato relegato quell’artefice.

Un gesto di amorevole riconoscenza verso un genio incompreso ma non solo.

L’ardita soluzione di questa documentata introduzione al testo letterario ha un sapore dottorale ed educativo che di certo non ti aspetti di trovare in teatro e che sulle prime può lasciare interdetti (io stesso all’inizio ho tentennato), ma che poi si risolve mirabilmente in un’ennesima occasione d’incontro “a viso aperto” nel momento in cui la recitazione diviene protagonista in una prorompente farsa, magistralmente ricondotta nella misura drammaturgica dell’opera letteraria, fino a prendere per  mano la storia protagonista vera della scena trasformandosi nell’ennesimo e felicissimo “coup de téâtre” al quale siamo da tempo avvezzi a La Baracca, un’isola incontaminata sulla quale siamo sicuri di approdare sempre in bellezza.

Il contrappunto tra l’autrice e l’attore, un sontuoso Gianfelice D’Accolti, resterà – a mio modesto avviso - una delle pagine più straordinarie, incredibilmente efficaci alle quali si possa pensare di assistere.

La magia del palco, a diretto contatto con l’attore, diviene palpabile per lo spettatore come non mai, vivendo appieno la performance dell’attore sul piano emotivo e su quello sensoriale andando dietro con tutto il corpo alle battute che si rincorrono una dietro l’altra. Una sequenza ininterrotta di imitazioni di personaggi stralunati in rappresentanza di tutti i popoli della terra, maldestri dottori di scienza e imbonitori di una politica che non esiste,  che esaltano le trovate letterarie di una penna incisiva e corrosiva, trovando però una simbiosi eccezionale nella sagacia interpretativa che l’attore restituisce in pura espressività fisiognomica con impareggiabile bravura, trasformando la voce in una sorta di “gestualità fonetica” (non saprei come descriverla in altro modo) di inarrivabile efficacia.

Tutto corre sul filo del verosimile illusorio per disvelare i segreti più gustosi dell’ironia manifesta che allontana di colpo la paura, il cupo presagio, l’incubo più angosciante per restituire al dramma impietoso e crudele, un’irresistibile carica di comicità. Alla fine quello che meraviglia è che questa volta Maila e Gianfelice, fuori dagli schemi consueti, ci hanno sorpreso giocando con lo spettatore, apparecchiando al pubblico un crescendo che strappa, volenti o nolenti, una spontanea e prolungata standing ovation.

Peccato che, dopo la seconda, non si replichi!".

 
Giuseppe Alberto Centauro

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