“Lo Spettacolo della Città … un teatro in movimento”
1 APRILE 2015 – Dedicato a mio padre Gabriele (20 marzo 1916 - 1 aprile
1963)
Parte prima
Il 29 marzo 2015 resterà di certo una data storica per il teatro di Prato,
con l’esordio di un nuovo, originalissimo, format di intrattenimento. Infatti
in questa nuova produzione del “Teatro La Baracca” sono state presentate molte
novità, per certi versi “rivoluzionarie”, soprattutto assai convincenti nella
formula, nell’esclusiva (per il momento) offerta ad un “pubblico di passeggeri”
per “Lo Spettacolo della Città” … teatro in movimento.
Idea pazzesca, eppure straordinariamente efficace, quella di proporre una performance teatrale in autobus,
itinerante con fermate e ripartenze, con scese e risalite, con soste a motore
spento e narrazioni viaggianti, toccando luoghi e storie del territorio
attraversato, completato dal dibattito a termine dello spettacolo.
Una proposta quella di Maila Ermini di pura ispirazione lorchiana (in
omaggio al “mitico” Teatro Universitario
La Barraca del quale Federico Garcìa Lorca fu artefice e indimenticato
direttore).
Le geniali intuizioni e scansioni teatrali di Maila e la bravura di
Gianfelice D’Accolti hanno fatto vivere in modo vibrante nelle tre ore di
rappresentazione questo teatro itinerante,
letteralmente bevuta dagli spettatori/ viaggiatori in una sorta di quarta
dimensione, sospesi dentro il mutare del paesaggio urbano di luoghi storici e
“non luoghi” contemporanei a comporre la cifra scenica.
Maila e Gianfelice, attori e registi insieme, hanno condotto all’unisono
per noi presenti uno spettacolo nello spettacolo. Mentre Maila apparecchiava la
storia, Gianfelice recitava, e viceversa. Novelle, racconti, ricordi, ma anche
annotazioni puntuali sul passato, sul presente e sul futuro della città, a
testimoniare oltre l’impegno civico di un messaggio profuso con misura e
piacevolezza. Entrambi hanno restituito la magia del teatro con l’incanto di
gesti e parole, scorrendo su e giù per il corridoio dell’autobus, facendo
toccare con mano a tutti le personalizzate testimoniare di quest’inedita
drammaturgia periurbana, ora sussurrate ora cantate. Pareva quasi che “La Baracca”,
in quanto anch’essa luogo fisico, si fosse smaterializzata fuori da quel di
Casale, diversamente oggettivata per aree, punti ed ambienti tra loro
differenziati lungo un articolato percorso anulare intorno al centro antico
della città, ruotando come la Terra intorno al Sole.
Un teatro itinerante che definire
sperimentale pare persino riduttivo, non tutto consumato sulle ruote di un bus,
mirabilmente “contestualizzato”, concreto, mai astratto o inutilmente
“concettuale”. Racconto perdurante che ha avuto il pregio di stupire, mai
banalizzare, come le singole trovate approntate dalla musa ideatrice che non
finisce mai di sorprenderti nel tirar fuori dal cilindro di un’inesauribile
vena creativa e poetica, una dietro l’altra, l’ennesima “prova d’autore”.
Ribaltando un concetto quasi archetipo della novità della messa in scena,
ovvero quello di trasformare in architettura scenica ogni qualsivoglia luogo
per farne occasione di drammaturgia o di spassoso evento di strada, il “Teatro
La Baracca” si è davvero messo alla prova scegliendo il movimento,
l’avanzamento, moving up direbbero gli anglosassoni, opzione non facile e assai rischiosa, cercando e
frugando nei meandri reconditi della città metropolitana una dimensione
diffusa, talvolta dispersa, forse irrecuperabile, rendendo persino bello,
quantomeno interessante il trash urbano,
in quella che Maila ha definito “l’estetica del brutto”, si alternano quartieri
dormitorio dove prima erano i prati, spazi socialmente alienanti al posto
dell’identità del primitivo tòpos.
Certo pensando ad un’identità forse perduta di certi spazi urbani, è rimasto
evidente il contrasto con lo strappo dell’oggi, ma anche grazie alle
espressioni calibrate e sensibili della narrazione, il sapore piacevole delle
parole resta a suscitare non tanto il senso di un lontano e nostalgico dèjà vu quanto piuttosto la
rigenerazione di uno stato d’animo sopito, latente in ognuno di noi nei
confronti del ricordo del tempo che fu, realizzando in una sfera ancora ben
percepita nella memoria di ciascuno, il vago rimembrare di un’esperienza
veramente vissuta che è stato emozionate far tornare alla mente e nel cuore.
Parte seconda
L’autobus corre coi racconti nello spazio e nel tempo, come nel Ritorno al futuro, senza però avere
possibilità alcuna di cambiare le cose, di recuperare le occasioni perse.
Attraversiamo, con una consapevolezza critica diversa, le Ville storiche del contado pratese (Capezzana, San Paolo, Galciana,
come fossero luoghi ripescati da un immaginario collettivo, monumenti della nostra
cultura materiale e della storia popolare, oggi separati tra loro da
tangenziali e oscure barriere di cemento. Poi, ancora, quell’incalzare di
immagini contrappuntate con garbato dialogo e sapiente regia, incredibilmente
sincronica con lo scorrere visivo dei paesaggi che si mostrano dai finestrini
tutt’intorno, ci lascia attoniti. La forza espressiva della narrazione, ben
modulata, perfettamente connaturata ai tempi di percorrenza del mezzo di
trasporto e a quelli canonici del palcoscenico, è di quelle cose che ti restano
sulla pelle. Provare per credere! Ma non c’è tempo di sedimentare alcunché
perché il viaggio continua, la corsa non si ferma in una comunicazione verbale
mai paga, generosa di battute e di aneddoti nell’incedere incalzante di prosa,
poesia, musica e canto.
Non si era mai visto niente del genere, vivere un autobus come “casa
comune”, mobile ed aperta allo stesso tempo, in un’esperienza da condividere
con altri occasionali passeggeri, ormai affratellati spettatori, coinvolti come
te in tour dal timbro confidenziale,
ricco di sorprese, suadente nei racconti letterari e negli amorevoli amarcord.
Il dialogo fra il malato e il sano di fronte al nuovo ospedale resterà una
pagina speciale di questo testo, tanto esilarante quanto graffiante, costruito
nella sagacia del “doppio senso” e dell’alternanza, trionfo di un’ironia
frizzante che diviene, senza parere, scherno simpaticamente vociato nel refrain di una canzone. Resta la palese
denuncia del malcostume che ci avvilisce giorno dopo giorno, senza tuttavia che
di questo sgradevole pensiero si abbia in alcun modo fastidioso modo di
intendere. Lo spettacolo ci dimostra infatti che non c’è affatto bisogno di
polemizzare nell’esplicita saga dei personaggi dialoganti.
Dopo avere spento il motore, per gustare al meglio la scena, quasi fosse
questo l’autobus di Harry Potter, si riparte per una nuova meta, in terra
incognita.
Questa sequenza di emozioni si è ormai trasformata in un’occasione speciale
di riscoperta della città nascosta nella periferia metropolitana, già scolpita
nell’esperienza fuggevole del momento e pur ben percepibile oltre gli
inevitabili colpi di scena e le suggestioni ambientali, godendo della realtà
sommersa della pòlis odierna, il più delle volte invisibile nel
quotidiano, di una Prato non evocata ma ben tangibile di fronte agli occhi. Una
città, oggi sull’orlo di una crisi di nervi che, al contrario, ha sempre fatto
del disincanto e della libertà di pensiero la sua più consona sintonia: gli
attori ce lo dimostrano con rime, stornelli e sollazzi vari.
L’acme del pathos si ha scendendo
tutti a terra una prima volta, alla fermata posta nei pressi della rotatoria
nord ovest della tangenziale, quella dove è stata collocata l’opera scultorea,
in acciaio e vetro, di Italo Bolano, dedicata all’Imperatore Federico II, non
certo un pratese doc ma pur sempre un suo lontano estimatore, un’opera visibile
al tramonto, del tutto inosservata di giorno, come spesso accade per tanti
luoghi “intermittenti” di questa città.
Qui, ben visibile, è un maestoso scenario che si apre ai nostri occhi,
dimostrando una bellezza panoramica inaspettata in un luogo davvero sui
generis.
Da un lato, rimirando l’inquietante spopolamento arboreo del poggiolo
maestro del Monteferrato e il profilo occidentale della Calvana, brulla in
testa, selvosa ai fianchi, si ha una sensazione opposta e convergente allo
stesso tempo.
Dall’altro, la bella cartolina visiva che si apre a 180 gradi, a ventaglio,
realizza un singolare “paesaggio dal basso,” una visione spettacolare che si fa
commovente per la grandiosità, quasi sacralità, del profilo montuoso che
suscita quella vista.
Qui, Gianfelice D’Accolti sublima le emozioni provate con gli occhi con una
performance d’autore, con grande
maestria e il piglio del maestro cantore, interpreta un monologo da brividi,
tratto dai Maledetti Toscani di
Curzio Malaparte, mettendo a nudo la pratesità e l’orgoglio del tempo che
fu. Gli spettatori viandanti,
inconsapevoli pellegrini della storia, ascoltano in silenzio, anzi partecipano
emotivamente all’unisono con l’attore che in ogni sussulto sembra parlare e
muoversi sopra il colle di Spazzavento, dove Curzio riposa insieme alla sua
immortale visione ed universale pensiero. Personalmente non ho mai provato un
coinvolgimento così forte in pura simbiosi tra spazio fisico e spazio
concettuale.
La bravura degli attori, la loro straordinaria professionalità ha di fatto
continuato a trasformare il pur non agevole viaggio, tra rotatorie assurde e una stordente viabilità
urbana, in qualcosa di unico, che è trasposto nella curiosità inappagabile di
“saperne ancora di più”, con tanta voglia di conoscere e fissare nella mente le
storie e i racconti, come quelli fantastici e realistici tratti dall’ Antologia sul Bisenzio, la “spoonriver”
pratese di Maila, vivendola come un’esperienza da non dimenticare che, mentre
si ascolta, si ha paura di perdere, come se le parole si cancellassero
nell’aria per una capacità mnemonica troppo labile.
Come se non bastasse, infatti, ben presto si accorgeranno gli spettatori di
essere anch’essi protagonisti involontari di uno spettacolare happening che gli sbalzerà letteralmente
fuori dai sedili per scendere tra la gente a mostrarsi in pubblico insieme agli
artisti. Curiosa inversione delle parti con gli attori che divengono scudo,
nell’ammiccante coraggio di una comune, contagiosa sfrontatezza da esibire in
piazze e piazzole pronte ad accogliere l’insolita carovana. Luoghi e facce
sempre variate, spazi sempre diversamente abitati, ora solitari, ora affollati,
risolti in prosceni di inusitata incisività, pregnanti di significati e
popolati di ricordi.
Il meglio si è avuto sulla ciclabile di un frequentatissimo viale Galilei,
presso l’aulica fabbrica del notabile imprenditore, Brunetto Calamai, in questo
posto è capitato quel che ho detto, tra la moltitudine di gente accorsa nel bel
pomeriggio primaverile al mercato straordinario di domenica i viaggiatori agli
occhi dei passanti si sono resi attori, involontari protagonisti della scena.
“Turisti per caso”, mutuando il titolo di una nota trasmissione televisiva.
Ad ogni fermata e successiva risalita sull’autobus col “Teatro La Baracca”
a fare da cicerone si è sempre e comunque avvertita nei 48 spettatori, una
progressiva e contagiosa euforia, quasi fosse stata quella una gita tra vecchi
amici, resa ancor più festosa per la piacevolezza della compagnia e lo spirito
goliardico dei due capigruppo.
Parte terza
Inutile negare che l’aspettativa per questa strepitosa novità teatrale era
stata, fin dall’esordio, grande, già al momento della prenotazione dei posti
disponibili, niente però al confronto del “coup de
théâtre" al
quale avremmo assistito ad ogni sosta, ad ogni fermata dell’autobus.
“Lo Spettacolo della Città” è un
qualcosa che non si può descrivere, piuttosto va vissuto.
Per dirne una non si può rammentare per filo e per segno tutto quel che è
successo, anche se tutto ciò è molto riduttivo e non conforme all’esperienza
realmente vissuta perché il viaggio è stato intenso. Nella seconda parte del
tour, non si può, ad esempio, non ricordare le odi alla natura recitate con il
bus accostato sulle sponde del torrente Bardena: quella dedicata al picchio,
simbolo del Centro di Scienze Naturali di Galceti; quella della scansonata favola
di Trilussa con la morale del cane “bastardetto”. Poemetti contrapposti alla
triste storia dell’anarchico regicida, Gaetano Bresci, sopra le limpide acque
del torrente che scorre accanto al bus, scopriamo nel racconto snocciolato da
Maila e Gianfelice di essere a ridosso dell’amena collinetta dove il Gaetano si
esercitava al tiro con la pistola per non sbagliare quel triplice sparo che lo
avrebbe dannato.
Bus stop in viale Marconi, all’ingresso dello spettrale parcheggio TIR,
giustapposto all’area, oggi in sgombero, del campo nomadi, o meglio dei Rom,
ancora carico di immondizia e cartacce svolazzanti tutt’intorno. Questo è “il luogo non luogo” per
antonomasia della città, posto alle porte di Prato in prossimità del suo
principale accesso urbano. Un’immagine davvero stridente, da “terra dei
fuochi”, che offende il senso comune del sentire e del vivere la natura che, a
contrasto con la stesa di asfalto e cemento, appare assai luminosa sotto il
verde argine erboso del Bisenzio, ancor più ingentilita dalla vista remota
delle ondulate pendici di Poggio Castiglioni.
Questa fermata (non si scende) segna però il punto più alto dello sconforto
per quanto è andato perduto nel fresco ricordo di quel che è accaduto con
l’obliterazione perpetrata nella barbarie dell’ignoranza, non giustificabile ed
insana, del grande insediamento etrusco, scoperto a fine del secolo scorso e
seppellito agli inizi di questo per far posto allo scalo merci dell’interporto.
Lo straordinario sito archeologico, posto giusto giusto al di là del fiume, in
sponda destra è la peggiore vergogna di questa operosa città che certo non
avrebbe meritato una vicenda così tanto infamante. La sofferenza che prova è
stata acuita nella metafora poetica del racconto che Maila ha proposto, senza
alcuna polemica o rabbiosa reazione, che evoca il fantasma di un’immaginaria
donna etrusca, regina della grande domus ancor superstite dello scempio: qui per
due volte nata e per due volte sepolta, prima dal limo e dalla fanghiglia
dell’onda fluviale, poi dal tombale cemento di abnormi piazzali, capannoni e
rugginosi binari.
Quale differenza tra l’orgoglio pratese di ieri, nobilmente narrato da
Malaparte, e la stupida cupidigia affaristica del pratese di oggigiorno,
politicamente incapace di leggere nella propria storia, valori e sentimenti, e
quanto semmai resta ancora di buono della cultura del nostro tempo!
Il lungo viaggio pomeridiano ormai avvia il suo percorso di rientro con
l’amarezza addosso che alberga nei cuori dei viaggiatori, prendendo il posto
del gusto dell’avventura … ma il
genio teatrale al pari del bus non si ferma, ed ancora una volta viene in soccorso
delle menti ora afflitte. Infatti, dopo avere ripercorso la tragedia di
un’occasione perduta, aver vissuto un novello “sacco” che squalifica e
mortifica tutti coloro che sono stati in qualche modo partecipi di questa
orribile vicenda, si riaffaccia la poesia, operando un nuovo miracolo attraverso
la lettura dei componimenti lirici di Sem Benelli.
Siamo nel macrolotto industriale e alla vista delle fabbriche rivestite in
mattoncini, come le villette della Pietà, si riassapora l’attenzione, anche
architettonica, di una filantropia del lavoro, un’etica urbana che pure poco
prima sembrava perduta. L’ode al tessitore di Sem Benelli ci ricorda un passato
eroico del lavoro in fabbrica, dove i più umili protagonisti sono posti alla
stregua degli eroi omerici, tanto il sacrificio, tanta la naturale e semplice
bellezza di una vita vissuta nel rapporto autentico e genuino con la propria
città.
Questo percorso intorno alla città può dunque completarsi serenamente e
riaffermarsi nella corretta sintesi anche antropologica della messa in scena,
senza eccessivi squilibri per il verismo mai dimenticato de “Lo Spettacolo
della Città”, non prima tuttavia di recarsi con una vena giustamente sarcastica
al “Parco Prato”, megastore della
contemporaneità più consumistica, ma qui il discorso si farebbe lungo ben oltre
i confini geografici del territorio perlustrato. Quasi un segno del destino, il
grande centro commerciale si è posizionato in perfetta giustapposizione al
Villaggio Gescal di Ludovico Quaroni, quartiere che fa parte della storia
urbanistica del dopoguerra, quando l’idea del ghetto sociale non era stata
messa alla prova e si sposava con l’idealità della “città giardino”, nel segno
di una presupposta adesione del popolo al progetto astratto di un mondo
asettico e autoreferenziale, non sussidiario al contesto urbano del centro
storico. A quel tempo la stagione dei suicidi per depressione ambientale e
dell’emarginazione non era stata ancora vissuta per poi assumere invece i connotati
di un dramma “non falso” che sarà piuttosto ricorrente nei quartieri dormitori
degli emarginati.
In questo luogo è successo un po’ quello che abbiamo toccato con mano,
transitando per il “viale dei tralicci”, vera mostruosità infrastrutturale del
territorio pratese, passata come modernizzazione, andando a prendere il posto
dell’antica via Cava e dell’attigua via del Ferro che segnavano, con ben altre
allusioni, il confine tra il
contado rurale e le aree verdi naturali delle zone umide della Piana a sud di
Prato, dove oggi per rimediare ai disastri ambientali si devono scavare
“spaventosi” bacini di compenso per le acque esondabili al fine di ridurre il rischio idraulico e gli
effetti della cementificazione selvaggia.
“Lo Spettacolo della Città” è da vivere dunque, a
fine del viaggio, non come un evento temporaneo quanto piuttosto come una
testimonianza della resilienza stessa della gente che, grazie al “Teatro La
Baracca”, ha da ieri un motivo in più per comprendere, per mantenere alta
l’attenzione, semmai discutere senza farsi distrarre dalle impietose falsità
dell’informazione corrente, il tutto con grande leggerezza e poesia.
Giuseppe Alberto Centauro