La “terre incognite” di Gonfienti
di Giuseppe
Alberto Centauro
L’anno 390 a.C. segna una
profonda linea di demarcazione tra la storia arcaica, dalla trattatistica
retorica e letteraria, e il racconto storico su base documentale, come lo
stesso Tito Livio non esita di riconoscere al cospetto dei grandi storici che
l’avevano preceduto, quali Polibio e Dionigi di Alicarnasso. Il 390 a.C. è
anche l’anno della capitolazione di Roma sotto le orde galliche di Brenno che ancor
oggi risuona nel memorabile: “Guai ai vinti”. In quell’anno si era consumata
anche la sorte di Gonfienti, sommersa in poche ore da rovinose acque fluviali.
Una terra senza storia dunque quella di Gonfienti, persino confusa dal più
grande storico di Roma, ora Camars ora Clusio. Di certo l’insediamento etrusco sul
Bisenzio seppe rigenerarsi, sopravvivendo ancora per secoli fino alla tabula
rasa di Silla in vari ambiti satelliti che dalle sue rovine crebbero in potenza
e si svilupparono: a sud, Artimino; ad est, Fiesole; ad ovest e a nord, i segni
territoriali si confondono però nelle reminiscenze leggendarie di una Bisenzio mercantile
e di un arroccato Clusio (luoghi più o meno corrispondenti ai siti dell’odierna
Prato e di Calenzano). La rarefazione delle fonti storiche e, soprattutto, la
grande colmata alluvionale che fin dal V-IV secolo a.C. ha coperto per l’intero
gli sbocchi vallivi dei torrenti Marina e Marinella fino alle sponde del
Bisenzio, da Gonfienti a Capalle (Campi Bisenzio), ha fatto sì che di questo
straordinario lembo di pianura rimanesse in luce solo l’arcana bellezza
corografica dei suoi monti. Lo testimoniano i massicci della Calvana e del
Morello, oggi separati da illogici confini amministrativi, disegnati con linee
geometriche senza alcun significato quasi si trattasse dei deserti coloniali nord
africani. Poco di più ci è dato di
sapere, nonostante i tanti reperti dissotterrati nei cantieri edilizi della
zona e nonostante gli innumerevoli segni materiali di antichissime
antropizzazioni, anche perché la paludata archeologia istituzionale sembra
avere perduto l’originaria propensione alla ricerca sul campo. La curiosità di
un tempo ha lasciato il posto alla routine e così le terre di Gonfienti, al
pari dell’insediamento etrusco sotto l’Interporto, sono disertate, non
interessando più alcuna perlustrazione geofisica dei siti e con essa ogni altro
tipo di autonoma verifica archeologica. La spessa coltre dei sedimenti
alluvionali della Valdimarina, ulteriormente incrementata da secolari arature e
da esiziali trasformazioni infrastrutturali, conferma però una ricca
stratigrafia archeologica che mostra chiaramente la discontinuità temporale che
segnò la fine della città etrusca e con essa i segni del disastro ambientale,
umano e naturale che interessò quel territorio. Fu forse il sistema di dighe a
collassare e generare una sorta di primigenio Vajont in tutta la piana? La
lettura sedimentologica dei terreni avvalorerebbe questa ipotesi se solo si
procedesse in modo sistematico con le indagini in situ. Se, agli esordi del VI
sec. a.C., il tracciamento della via etrusca che conduceva in tre giorni da
Pisa a Spina, poneva al centro del sistema politico Gonfienti e, al di là dagli
appennini, Kainua (Marzabotto) [“CuCo” 251, p. 14], si
sanciva pure la piena occupazione dei territori cispadani da parte degli
Etruschi, ma nondimeno i Galli stavano iniziando la loro inarrestabile
penetrazione dalle terre dell’Oltrepò lungo la dorsale fino al mare, alla coste
marchigiane (fiume Esino), impadronendosi pian piano delle terre abitate dagli
Etruschi e dagli Umbri che da tempo facevano parte del vasto Stato clusino, al quel tempo più
grande della Roma regia, posto tra gli Appennini e l’Adriatico. Come ricorda
Livio, op. cit. [“CuCo” 259] popolazioni celtiche passarono in Italia a cercare terre
fertili duecento anni prima dell’invasione dei Senoni di Brenno del 390 a.C.,
dunque ben prima che Chiusi (ma quale Chiusi?) fosse assalita e che Roma fosse
presa (ducentis quippe annis ante quam Clusium oppugnarent urbemque Romam
caperent, in Italiam Galli transcendere, (V, 33, 5). Non meravigli dunque l’appellativo clusinum riservato da Livio alle aree dell’Etruria cispadana che, di
certo, mutuava dalle sue origini arcaiche: come Felsina (Bononia) da Velzna (la
romana Volsinii), come l’etrusca Klevsin nella romana Clusium, ma anche
Clusentinus che identificava le due valli appenniniche umbro-etrusche del
Mugello e del Casentino. Clusinum è dunque un toponimo archetipo utilizzato nella
storiografia romana che contrassegnava un territorio molto esteso: “terre
incognite”, diremmo oggi, nelle ascendenze etrusche da esplorare ex novo, che
evocavano l’epopea del grande condottiero che nel VI sec. a.C. le riunificò: il
nobile Porsenna, re di Chiusi (Lartem Porsennam, Clusinum regem) (II, 9, 9).
(Articolo pubblicato anche su Cultura Commestibile nr. 260)
(Articolo pubblicato anche su Cultura Commestibile nr. 260)
Fig. 1 – le terre alluvionali in Valdimarina sommerse tra la fine del V e il principio del IV sec. a.C. (ricostruzione di G.A. Centauro). |
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