Una vecchia inchiesta di Repubblica (2016) dal titolo :"Chi ci guadagna con l'arte italiana" (vedi sotto il link) può chiarire perché il ministro Franceschini ha permesso l'apertura dei musei mentre invece tenga chiusi teatri e cinema.
L'inchiesta, molto articolata, fa capire chi li gestisce, chi ci guadagna, e quindi può anche chiarire sul perché invece il ministro in questione tenga chiusi i teatri e i cinema: sul circuito delle sale cinematografiche, ormai in smantellamento, girano ormai pochi interessi economici; sul teatro non ne parliamo, essi sono irrilevanti e le persone che vi gravitano o sono tutti a busta paga o sono sottomesse alla politica.
Qui, dell'inchiesta, copio solo l'intervento di Tomaso Montanari.
"Dal danno civico alla beffa economica di TOMASO MONTANARI
Il primo è: “il patrimonio culturale deve sottostare alle regole del mercato”. Personalmente sono in radicale disaccordo con questo dogma (perché il fine ultimo del patrimonio è il pieno sviluppo della persona umana, un valore che non deve stare sul mercato), ma questa inchiesta ci dice che, in ogni caso, qua il mercato non c'entra. L'economia delle concessioni del patrimonio non è basata sulla libera concorrenza, ma sulla spartizione tra pochi oligopolisti con connessioni fortissime con la politica. L'uomo chiave del governo Berlusconi che, nel 2008, dimezzò in un colpo il bilancio pubblico dei musei è lo stesso che oggi presiede la matrioska che contiene la società numero uno nella classifica dei concessionari privati. Un caso? Basta scorrere i cognomi dei membri di presidenze, cda, consigli scientifici per scoprire che il gruppo dirigente di queste 'imprese' è direttamente connesso alla politica e all'amministrazione del patrimonio culturale da un efficiente sistema di porte girevoli a rotazione continua: il risultato è che i nostri maggiori musei affogano in una sabbia mobile di interessi privati, nel più completo disinteresse di chi dovrebbe garantire le regole antitrust. Un sistema così potente da riuscire a bloccare le gare, permettendo che, da anni, la torta sia spartita tra i soliti noti.
Il secondo è: “con la gestione privata i musei si modernizzano, e si aprono ai cittadini”. Dopo vent'anni abbondanti di privatizzazione all'italiana chi può davvero sostenere che qualcosa si sia modernizzato? O che i nostri musei siano diventati luoghi più accoglienti per gli italiani? Al contrario, si sono trasformati in turistifici di bassa qualità, carne da messa a reddito (privato), un tanto al chilo. E i residenti, che pagando tasse tengono in piedi la baracca? Per loro non c'è alcuna politica, anzi sono a stento tollerati.
Se a questo si somma il fatto che, contemporaneamente, lo
Stato si è ritirato dal fronte della tutela, il risultato è che i nostri musei
non sono più centri di produzione e redistribuzione della conoscenza (come
invece il Louvre, o il British Museum, o il Prado), ma fatiscenti “discount
della bellezza”, proni ad un turismo mordi e fuggi.
E quando la politica mette le mani sul patrimonio, il
sottobosco dei concessionari tira un sospiro di sollievo: finché la rendita va,
lasciala andare.
Dal danno civico alla beffa ec
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