Torno su Carlo Monni, per puntualizzare alcuni aspetti della sua 'arte'.
Credo di poterlo fare; lo conoscevo da tempo (aveva portato alla Baracca anche il suo spettacolo Monni all'Inferno nel 2010), ma l'ho conosciuto a fondo durante tre mesi di lavoro, gomito a gomito: eravamo solo io e lui in teatro durante le prove del mio Leonardo, diario intimo di un genio, e questo permise ad entrambi un approccio, se non intimo, scoperto e franco.
Al mattino lo andavo a prendere; ci incontravamo davanti al bar La tazza d'oro a Prato, dove lui non mancava di andare a fare colazione, e lo riportavo alla fermata dell'autobus, quando non alle Cascine o a Firenze direttamente.
Non era propriamente un attore; o, perlomeno, era un attore sui generis; piuttosto un esempio di poeta contadino, di popolare dicitore dei classici toscani; cantante estroso, simpatico e trascinatore, anche in grazia di quel suo modo trasandato di vivere, bohémien alla toscana, incurante di tutto.
Egli era un fautore dell'antintellettualismo; ed in questo consisteva il nostro contrasto di fondo.
Io l'avevo scelto come Leonardo, per togliere a Leonardo storico la plasticità, l'iconografia classica e commerciale che ha oggi, per riportarlo alla sua ruvidezza antica. Ri-significarlo. Mi sembrava che Carlo lo potesse fare meglio di altri; ma mi sbagliavo.
Carlo fece mostra di accettare il mio progetto, ma in realtà tentò poi di fare come gli pare, addirittura impose i cinque minuti, dopo lo spettacolo, in cui intendeva ristabilire il suo rapporto solito e comico con il pubblico; come se si vergognasse o avesse in uggia essere attore, o interpretare una parte più seria.
I cinque minuti furono un fallimento, e lui se ne rese ben conto, perché dopo il monologo di Leonardo, non avevano senso.
Non studiava e non voleva provare più di due ore. Una volta s'incazzò, mi mandò a quel paese perché gli chiesi di restare mezz'ora in più, e fummo sul punto di non fare più niente.
Poi si scusò, e riprendemmo senza problemi. Ma io non fui mai veramente soddisfatta del lavoro, se non in alcune prove.
Diceva di non amare di fare l'attore classicamente; che anzi, lui avrebbe fatto a meno dei registi, che non era più disposto a quel lavoro per il futuro, se non eccezionalmente o per impegni già presi.
Ricordava La Beffa del Grasso Legnaiolo per la regia di Orazio Costa, a cui mi avvicinava, e organizzata dal Comune quando Firenze fu capitale della cultura europea, e di quello spettacolo ricordava sorridendo l'amato Herlitzka, che sempre studiava, diversamente da lui; e rammentava lo sgomento di Costa difronte al suo comportamento...
Con tutto l'affetto che porto a Carlo, ché con lui ho passato anche belle giornate, e l'ho apprezzato nelle sue estemporaneità, in alcuni suoi momenti artistici, pure egli era appunto un esempio dell'antintellettualismo in arte, e io questo l'ho capito dopo; ossia: apparteneva a coloro che pensano ( e sono molti) che troppo pensiero in arte fa male, che bisogna lasciare spazio al sentimento, all'istinto, all'estro; che lo studio, il cerebralismo nuoce, che non ci debbono essere sistemi in campo artistico...
E' una vecchia storia, ma ancora vive e prolifera. Anzi, in Toscana l'antintellettualismo va alla grande (si osserva nel cinema dei registi locali che hanno in odio gli attori di teatro - così qualcuno disse appunto a Carlo davanti a me, e incredibilmente si nota anche in alcuni scrittori), anche perché porta pubblico, come portava pubblico anche Carlo, e lui lo sapeva. E aggiungeva: -Perché devo fare diversamente che al pubblico garbo così?
In realtà dietro a certo antintellettualismo si nascondono pigrizia e perché no, furbizia contadina.
Carlo è stato un grande interprete dell'arte popolare, ormai defunta; esempio bello di come - in questo la Toscana è stata maestra - anche fra il popolo pur incolto o poco colto si valorizzasse e apprezzasse la poesia. Con lui tutto questo è morto; ed è per questo che, artisticamente, sentiremo la sua mancanza.