La dinosaura o
l’abisso della paura
Assisto ieri
sabato 5 Ottobre alla terza replica de La Dinosaura di e con Maila Ermini, al Teatro
La Baracca di Prato. Sono quegli eventi teatrali – si deve chiamarli così- a cui è impossibile
assistere se si è affezionati
scaldapoltrone di teatri damascati e frequentati dagli assessori, animali in
via di distinzione, e dai loro tristi confratelli, i funzionari culturali.
Tutta una fauna che si tiene lontana dalle riserve di cultura libera e non
manipolabile. Non vedranno mai dunque certi miracoli che toccano invece poveri
spettatori che si accomodano su panche di legno sincero, rivestito qua e là da
cuscini neanche troppo morbidi e comodi. Ma c’è spazio nella sala fra l’attrice
e il pubblico, e questo è voluto: la distanza è non solo spaziale ma anche e soprattutto temporale.
Noi che si arriva in quel luogo, infatti, siamo la vera razza estinguentesi; la donna-animale che appare e parla, si partorisce dalla nostra diffusa e non espressa paura di scoprirci bestiali e spaesati. Maila Ermini tutta coda, occhi, braccia, gambe, danza come quell’animale primitivo che tanta mitologia (c’è anche un deserto di dinosauri da qualche parte negli “States”) ha creato intorno a sé di terrore, brutalità, primitività e buio intellettivo: dinosauro, animale estinto. Ma è davvero così? È davvero estinto in noi il senso di una natura tirannica a cui nessuna etica imporrà mai uno iota, nessuna forma sociale sarà capace di piegarne la titanica energia, nessun pensiero umano potrà mai soggiacere alla sua volontà?
Lo scontro tra la presentissima animala (ma dovrei dire aniMaila, consentitemi il neologismo) di cui noi spettatori temiamo l’imprevedibile reazione – me ne accorgo dal nostro respiro sospeso; e dal nostro muto sentire; e dalla corale angoscia – e il consesso di inquilini e personaggi che la circondano vivi e antagonisti e indifferenti e sprezzanti – e riusciamo a vederli tutti, tale è la potenza dello sguardo evocatore della monologante – si costruisce con un linguaggio ilare che anch’esso affonda radici e tronco e fogliame in un ancestrale incodificato dialetto – bolognese, toscano fiorentino, germanico, ispanico, ma anche padovano-veneto e partenopeo, e una glotta antica e ricreata per noi udienti da chissà quale pozza di Volgare arcaico e ci richiama ad un immediato suono che è pure esso una danza insieme al magnifico corpo che canta, parla, urla, inveisce, mugola e mima, come un nuovo Calibano, la storia della lingua nella storia della lotta per vivere, per esserci, per duplicarsi.
Ci sono volute solo tre repliche a Maila per giungere a parteciparci un’armonia, un canto, una morbidezza comica e cavernicola che ci richiama al nostro profondo sé, che vuole affermarsi e difendersi dal progresso distruttivo e che indica una rocambolesca via del ritorno nel primitivo, nel sasso, nell’umano.
Noi che si arriva in quel luogo, infatti, siamo la vera razza estinguentesi; la donna-animale che appare e parla, si partorisce dalla nostra diffusa e non espressa paura di scoprirci bestiali e spaesati. Maila Ermini tutta coda, occhi, braccia, gambe, danza come quell’animale primitivo che tanta mitologia (c’è anche un deserto di dinosauri da qualche parte negli “States”) ha creato intorno a sé di terrore, brutalità, primitività e buio intellettivo: dinosauro, animale estinto. Ma è davvero così? È davvero estinto in noi il senso di una natura tirannica a cui nessuna etica imporrà mai uno iota, nessuna forma sociale sarà capace di piegarne la titanica energia, nessun pensiero umano potrà mai soggiacere alla sua volontà?
Lo scontro tra la presentissima animala (ma dovrei dire aniMaila, consentitemi il neologismo) di cui noi spettatori temiamo l’imprevedibile reazione – me ne accorgo dal nostro respiro sospeso; e dal nostro muto sentire; e dalla corale angoscia – e il consesso di inquilini e personaggi che la circondano vivi e antagonisti e indifferenti e sprezzanti – e riusciamo a vederli tutti, tale è la potenza dello sguardo evocatore della monologante – si costruisce con un linguaggio ilare che anch’esso affonda radici e tronco e fogliame in un ancestrale incodificato dialetto – bolognese, toscano fiorentino, germanico, ispanico, ma anche padovano-veneto e partenopeo, e una glotta antica e ricreata per noi udienti da chissà quale pozza di Volgare arcaico e ci richiama ad un immediato suono che è pure esso una danza insieme al magnifico corpo che canta, parla, urla, inveisce, mugola e mima, come un nuovo Calibano, la storia della lingua nella storia della lotta per vivere, per esserci, per duplicarsi.
Ci sono volute solo tre repliche a Maila per giungere a parteciparci un’armonia, un canto, una morbidezza comica e cavernicola che ci richiama al nostro profondo sé, che vuole affermarsi e difendersi dal progresso distruttivo e che indica una rocambolesca via del ritorno nel primitivo, nel sasso, nell’umano.
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