di Eloisa Pierucci
Lo spettacolo CAFIERO LUCCHESI – Vita e morte fra
Mussolini e Stalin rappresenta una vera e propria sfida, tanto per gli
attori quanto per il pubblico. Maila Ermini, autrice del testo, regista ed
interprete, mette in scena la storia dell'operaio pratese comunista che,
fuggito dall'Italia nel 1922 dopo aver ucciso, per legittima difesa, il tenente
fascista Florio, trova rifugio e si stabilisce in URSS, dove verrà
successivamente perseguitato e infine ucciso sotto il regime stalinista,
solo per aver tradotto l'irriverente poesia di Mandel’stam Il montanaro
del Cremlino.
La biografia di Lucchesi, ricostruita nelle sue
tappe essenziali attraverso l'intrecciarsi di dialoghi e situazioni
storicamente attendibili, è il punto di partenza per una riflessione più ampia
sui metodi utilizzati dalle dittature per schiacciare qualsiasi tipo di
libertà personale, persino – anzi, soprattutto – la libertà di pensiero. E
qui viene lanciata una prima provocazione: se nella prima parte della pièce
viene mostrata tutta l'arrogante violenza del nascente regime fascista, nella
seconda trova ampio spazio la rappresentazione dei sistemi di controllo
staliniani, oppressivi e arbitrari, tesi ad eliminare qualsiasi forma di
dissenso. Regime fascista e regime comunista, quindi, messi a confronto,
risultano accomunati dalla stessa ferocia e dalla stessa sete di repressione:
il caso di
Cafiero, emblematico della condizione di molti
comunisti italiani (e non solo) del tempo, mette in luce anche il complice
silenzio di alcuni “compagni”, tra cui Togliatti.
Una sfida per il pubblico, dunque, perché con
Cafiero Lucchesi siamo costretti a confrontarci con un passato non ancora
sufficientemente “metabolizzato” e perché la possibilità di rivivere
oggi, nel piccolo teatro, quel passato così oscuro ci
porta inevitabilmente a interrogarci su quanto siamo davvero liberi
nell'attuale sistema economico – politico – sociale. L'impatto è reso ancora
più forte da una particolare scelta di regia: gli attori recitano a
pochissima distanza dagli spettatori, che si trovano letteralmente immersi nella scenografia.
L'azione risulta così ancora più incalzante ed il pubblico può cogliere
ogni minima sfumatura sul volto degli interpreti, quasi come nei primi
piani cinematografici (è infatti intenzione della regista quella di dar
vita, in questo spettacolo, a una recitazione a metà tra il teatro ed il
cinema).
Le scene si compongono di pochi oggetti, che
delineano con esattezza i diversi spazi dove si svolge la vicenda (quasi
“luoghi deputati” di una rappresentazione medievale); particolarmente efficace,
all'inizio della seconda parte (ambientata in Russia), la costruzione a vista,
tramite la sovrapposizione di semplici panche, di quello che sarà il
carcere di Cafiero e di altri “compagni” sospettati di “attività controrivoluzionarie”.
Complemento essenziale di questo impianto scenografico sono le luci: di
volta in volta accese e spente dagli stessi attori, svolgono la funzione
di delimitare gli spazi, ma anche quella di scandire il ritmo della
drammaturgia.
Anche le musiche ed i costumi sono in linea con la
cifra stilistica dello spettacolo, che si concretizza nella scelta di
mezzi semplici ma fortemente evocativi. Canzoni fasciste e poi russe
collocano l'azione in un tempo e in uno spazio ben definiti, mentre il
tema finale ci accompagna in una dimensione aperta e atemporale. Gli interpreti
indossano la tuta blu tipica dell'operaio (il modello fu inventato dal
futurista Thayaht): su questa base vengono aggiunti alcuni elementi (un
berretto, un foulard, una vestaglia) per caratterizzare i diversi
personaggi. Infatti due soli attori, la già citata
Maila Ermini e Gianfelice D'Accolti, si assumono il
non facile compito di incarnare i diversi protagonisti e comprimari del
dramma, giocando sulla variazione dei toni di voce e talvolta di accento,
oltre che sulla fisicità. La prima risulta efficace tanto nella
caratterizzazione della malinconica figura della fidanzata Giulia, quanto
nel tratteggiare alcuni personaggi maschili, come l'orwelliano e spietato
“compagno commissario”, ed i quattro prigionieri russi nella difficile
scena del carcere. Il secondo, ugualmente impegnato in
vari ruoli, si distingue per l'intensa interpretazione di Cafiero: umano, coraggioso ma mai
artificiosamente eroico, quasi incredulo di fronte agli assurdi arbitri del potere. Senza l'aiuto di alcun
effetto scenotecnico, D'Accolti riesce a trasmetterci tutto l'orrore
fisico e psicologico della tortura, mentre durante il primo degli interrogatori
la sua declamazione della poesia incriminata suona come un sommesso e
quasi beffardo inno alla libertà.
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