mercoledì 20 novembre 2013

Una recensione su "Cafiero Lucchesi"

Recensione  su CAFIERO LUCCHESI – Vita e morte fra Mussolini e Stalin  - 16 e 17 novembre 2013, Teatro La Baracca (Prato)

di Eloisa Pierucci

Lo spettacolo CAFIERO LUCCHESI – Vita e morte fra Mussolini e Stalin rappresenta una vera e  propria sfida, tanto per gli attori quanto per il pubblico. Maila Ermini, autrice del testo, regista ed interprete, mette in scena la storia dell'operaio pratese comunista che, fuggito dall'Italia nel 1922 dopo aver ucciso, per legittima difesa, il tenente fascista Florio, trova rifugio e si stabilisce in URSS, dove verrà successivamente perseguitato e infine ucciso sotto il regime stalinista, solo per aver tradotto l'irriverente poesia di Mandel’stam Il montanaro del Cremlino.

La biografia di Lucchesi, ricostruita nelle sue tappe essenziali attraverso l'intrecciarsi di dialoghi e situazioni storicamente attendibili, è il punto di partenza per una riflessione più ampia sui metodi utilizzati dalle dittature per schiacciare qualsiasi tipo di libertà personale, persino – anzi, soprattutto – la libertà di pensiero. E qui viene lanciata una prima provocazione: se nella prima parte della pièce viene mostrata tutta l'arrogante violenza del nascente regime fascista, nella seconda trova ampio spazio la rappresentazione dei sistemi di controllo staliniani, oppressivi e arbitrari, tesi ad eliminare qualsiasi forma di dissenso. Regime fascista e regime comunista, quindi, messi a confronto, risultano accomunati dalla stessa ferocia e dalla stessa sete di repressione: il caso di 
Cafiero, emblematico della condizione di molti comunisti italiani (e non solo) del tempo, mette in luce anche il complice silenzio di alcuni “compagni”, tra cui Togliatti.

Una sfida per il pubblico, dunque, perché con Cafiero Lucchesi siamo costretti a confrontarci con un passato non ancora sufficientemente “metabolizzato” e perché la possibilità di rivivere oggi, nel piccolo teatro, quel passato così oscuro ci porta inevitabilmente a interrogarci su quanto siamo davvero liberi nell'attuale sistema economico – politico – sociale. L'impatto è reso ancora più forte da una particolare scelta di regia: gli attori recitano a pochissima distanza dagli spettatori, che si trovano letteralmente immersi nella scenografia. L'azione risulta così ancora più incalzante ed il pubblico può cogliere ogni minima sfumatura sul volto degli interpreti, quasi come nei primi piani cinematografici (è infatti intenzione della regista quella di dar vita, in questo spettacolo, a una recitazione a metà tra il teatro ed il cinema). 

Le scene si compongono di pochi oggetti, che delineano con esattezza i diversi spazi dove si svolge la vicenda (quasi “luoghi deputati” di una rappresentazione medievale); particolarmente efficace, all'inizio della seconda parte (ambientata in Russia), la costruzione a vista, tramite la sovrapposizione di semplici panche, di quello che sarà il carcere di Cafiero e di altri “compagni” sospettati di “attività controrivoluzionarie”. Complemento essenziale di questo impianto scenografico sono le luci: di volta in volta accese e spente dagli stessi attori, svolgono la funzione di delimitare gli spazi, ma anche quella di scandire il ritmo della drammaturgia.

Anche le musiche ed i costumi sono in linea con la cifra stilistica dello spettacolo, che si concretizza nella scelta di mezzi semplici ma fortemente evocativi. Canzoni fasciste e poi russe collocano l'azione in un tempo e in uno spazio ben definiti, mentre il tema finale ci accompagna in una dimensione aperta e atemporale. Gli interpreti indossano la tuta blu tipica dell'operaio (il modello fu inventato dal futurista Thayaht): su questa base vengono aggiunti alcuni elementi (un berretto, un foulard, una vestaglia) per caratterizzare i diversi personaggi. Infatti due soli attori, la già citata 

Maila Ermini e Gianfelice D'Accolti, si assumono il non facile compito di incarnare i diversi protagonisti e comprimari del dramma, giocando sulla variazione dei toni di voce e talvolta di accento, oltre che sulla fisicità. La prima risulta efficace tanto nella caratterizzazione della malinconica figura della fidanzata Giulia, quanto nel tratteggiare alcuni personaggi maschili, come l'orwelliano e spietato “compagno commissario”, ed i quattro prigionieri russi nella difficile scena del carcere. Il secondo, ugualmente impegnato in vari ruoli, si distingue per l'intensa interpretazione di Cafiero: umano, coraggioso ma mai artificiosamente eroico, quasi incredulo di fronte agli assurdi arbitri del potere. Senza l'aiuto di alcun effetto scenotecnico, D'Accolti riesce a trasmetterci tutto l'orrore fisico e psicologico della tortura, mentre durante il primo degli interrogatori la sua declamazione della poesia incriminata suona come un sommesso e quasi beffardo inno alla libertà.

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